La battaglia perduta di Obama

L’uccisione di cinque agenti a Dallas da parte di Micha Johnson testimonia che otto anni...

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L’uccisione di cinque agenti a Dallas da parte di Micha Johnson testimonia che otto anni di presidenza Obama non sono riusciti a sanare le tensioni razziali in America, fino al punto da trasformare la violenza fra bianchi e neri in una pericolosa variante elettorale nella sfida di novembre che assegnerà la Casa Bianca.

Barack Obama si candidò alla presidenza, il 10 febbraio 2007, con il discorso di Springfield, Illinois, in cui si richiamò all’eredità di Abramo Lincoln per sottolineare la necessità di «riunificare la casa divisa» ovvero trasformare l’America in una nazione più coesa e solidale. Figlio di un keniota e di una donna bianca del Kansas, formatosi politicamente a Chicago – la città ancora oggi più segregata d’America – e riuscito ad imporsi da afroamericano nell’élite bianca, anglosassone e protestante di Harvard e Washington, Obama dimostrava con la sua parabola personale la possibilità di costruire una nazione post-razziale. La conquista della Casa Bianca ha fatto credere a milioni di americani che la scommessa potesse essere vinta grazie all’evento rivoluzionario che aveva visto la maggioranza degli elettori votare per un nero. Ma otto anni di presidenza hanno dimostrato il contrario ed oggi bianchi e afroamericani sono più divisi di prima.

I motivi sono tre. Primo: il ceto medio bianco si sente tradito da Obama perché imputa il proprio impoverimento economico all’affermazione sociale ed economica delle minoranze, a cominciare da ispanici e afroamericani, testimoniata da immagini-simbolo del nuovo potere come quella scattata da Pete Souza dentro il Marine One nella quale si vede Obama circondato dai più stretti consiglieri e nessuno di loro è un bianco. Secondo: le comunità afroamericane più povere, dall’Alabama alla Florida, rimproverano al primo Presidente nero di averle dimenticate, sfavorite e danneggiate decidendo di concentrare gli aiuti pubblici a vantaggio delle aree più degradate abitate da bianchi. «A volte penso che Barack Obama è stato il presidente di tutti, tranne che di noi afroamericani» ha ammesso Anthony Kapel Van Jones, ex consigliere della Casa Bianca sull’ambiente. Terzo: Obama non è riuscito a vincere le resistenze del Congresso di Washington a limitare il diritto di possedere armi da fuoco – protetto dal Secondo Emendamento della Costituzione – innescando paradossalmente l’effetto opposto, ovvero un aumento degli acquisti di armi da parte di cittadini intimoriti dalla possibilità del varo di nuove leggi molto restrittive.

La sovrapposizione fra la rabbia del ceto medio bianco impoverito, il senso di crescente emarginazione degli afroamericani e il boom di acquisti di armi – inclusi i fucili d’assalto – per usi personali è all’origine della moltiplicazione delle violenze inter-razziali da Ferguson in Missouri a Baltimora in Maryland, da Baton Rouge in Louisiana a St Paul in Minnesota, fino alla strage di Dallas in Texas. Se nella maggioranza dei casi si è trattato di poliziotti bianchi che hanno ucciso afroamericani, a Dallas è stato un afroamericano a fare fuoco sugli agenti bianchi confessando durante l’assedio finale di volerne uccidere il più possibile per punirli delle violenza inflitte ai neri. Ciò che colpisce è come questo domino di violenze inter-razziali trovi Obama in evidente ritardo. Nella notte di giovedì milioni di americani lo hanno sentito parlare in tv mentre metteva all’indice le violenze di «alcuni poliziotti contro gli afroamericani» e neanche due ore dopo da Dallas arrivavano le immagini di un evento con una dinamica esattamente opposta. Non c’è alcun dubbio che Obama ha dedicato importanti risorse della sua presidenza a ridurre le diseguaglianze, la povertà ed il razzismo, ma i risultati sono ben al di sotto delle attese. E la conseguenza è un’America che si avvia alle Conventions elettorali di Cleveland e Philadelphia nel segno di una violenza razziale che può condizionare la corsa alla Casa Bianca.

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vivicentro.it/editoriale –  lastampa / La battaglia perduta di Obama MAURIZIO MOLINARI

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