Pensioni e Bce minacciano i conti pubblici

La possibile marcia indietro del governo rispetto all’aumento automatico a 67 anni dell’età pensionabile e la fine...

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La possibile marcia indietro del governo rispetto all’aumento automatico a 67 anni dell’età pensionabile e la fine degli stimoli della Bce minacciano i conti pubblici. Secondo le stime dell’Inps congelare l’età della pensione ai livelli attuali di qui al 2035 costerebbe ben 141 miliardi di euro, mentre l’eliminazione dello «scudo» di Draghi farebbe schizzare lo spread. Per l’Italia significa, come scrive Stefano Lepri, dover fare i conti con il super-debito. Intanto oggi il governo indica il nome per Bankitalia. E sulla strada della riconferma di Ignazio Visco spunta Saccomanni.

Pensioni, ridurre l’età? Boeri: “Un’idea sciagurata”
La fine degli stimoli Bce riavvicina all’Italia l’incubo dello spread

Il presidente dell’Inps: aumenterebbe il debito pubblico. Inevitabile che Draghi cambi politica

ROMA – L’«idea sciagurata», come la definisce il presidente dell’Inps Tito Boeri potrebbe costarci ben 141 miliardi di euro. Per questo, ma non solo per questo, bisognerebbe evitare di manomettere le regole introdotte nel 2009 dal governo Berlusconi e poi rafforzate con la riforma Monti-Fornero del 2011 che di fatto hanno messo in sicurezza la nostra previdenza. «Il blocco dell’età pensionabile è qualcosa che va a interferire con gli automatismi che abbiamo introdotto nel nostro sistema» sostiene da mesi Boeri che ora torna all’attacco segnalando i costi «insostenibili» di un’operazione del genere.

L’adeguamento automatico dell’età della pensione alle aspettative di vita è fissato per legge, con revisioni prima triennali e poi dal 2019 biennali, ed è giudicato il vero perno del nostro sistema previdenziale. Insomma un vero meccanismo di garanzia, che anche all’estero ci riconoscono, soprattutto perché legato a decisioni di tipo amministrativo e quindi slegato dai possibili mercanteggiamenti a favore di questa o di quella categoria. Per questo è fondamentale «sottrarlo all’arbitrio della politica che, abbiamo visto, interviene sempre tardi e mira ad accontentare qualcuno in vista delle prossime elezioni» sostiene Boeri. Era fine settembre quando il presidente dell’Inps pronunciava queste parole e già anticipava in qualche modo quello che sta accadendo oggi.

E’ convinzione diffusa che se a questo punto dovessimo cambiare le regole, avremmo subito contraccolpi sulla credibilità esterna del nostro Paese, un impatto forte sui titoli di Stato, che tra l’altro la diluizione del quantitative easing da parte della Bce renderebbe ancora più gravoso, e questo aumenterebbe ancor di più il peso dei nostri conti pubblici.

Per il governo l’adeguamento dei requisiti di accesso alla pensione è uno strumento fondamentale che al pari dell’introduzione del nuovo sistema di calcolo contributivo e della ripresa della crescita contribuisce in questa fase a stabilizzare la nostra spesa previdenziale. Infatti, pur a fronte di una dinamica demografica tutt’altro che favorevole, come specifica anche l’ultimo Def, il costo delle pensioni «decresce per un periodo di circa 15 anni attestandosi al 15,1% del Pil attorno al 2028», mentre oggi viaggia ancora attorno al 15,5-15,6%. Per questo fino a ieri sia il premier Gentiloni che il ministro dell’Economia Padoan hanno tenuto il punto, tanto da costringere la settimana scorsa il ministro del Lavoro Poletti ad aggiornare a data da destinarsi il tavolo coi sindacati che hanno messo proprio il blocco dell’età in cima alla lista delle loro richieste.

I 141 miliardi di spesa in più che calcola l’Inps, immaginando che venga rispettata unicamente la clausola di salvaguardia che fa scattare comunque la soglia dei 67 anni a partire da 2021, e lasciando poi invariata la situazione sino al 2035, sarebbero quasi interamente destinati a tradursi in aumento del debito pensionistico implicito, dato che l’uscita prima del previsto di centinaia di migliaia di lavoratori verrebbe compensata solo in minima parte dalla riduzione dell’importo delle loro pensioni.

Per il presidente della Commissione lavoro della Camera Cesare Damiano quello dell’adeguamento automatico dell’età è «un meccanismo perverso», che non tiene conto delle mansioni svolte dai lavoratori e che pertanto «va assolutamente rivisto». Anche perché prevede solo aumenti al rialzo e mai all’ingiù, anche nel caso (ovviamente non auspicabile) che l’aspettativa di vita in alcuni anni cali. Assieme al suo omologo del Senato, Maurizio Sacconi, nelle scorse settimane Damiano ha lanciato un appello già sottoscritto da oltre 100 parlamentari. La loro idea è di rinviare a giugno 2018 la decisione sull’età, operazione ovviamente a costo zero. Se poi si volesse sospenderne temporaneamente l’aumento, mantenendo il livello attuale di 66 anni e 7 mesi per la vecchiaia e a 42 anni e 10 mesi per l’anticipo (41 e 10 mesi per le donne) fino al 2021, il costo sarebbe comunque relativamente contenuto. Al massimo per il biennio 2019-2020 potrebbero servire in tutto 5 miliardi.

La fine degli stimoli Bce riavvicina all’Italia l’incubo dello spread

FRANCOFORTE – Finché ha potuto, Mario Draghi ha spostato in avanti il momento della verità. Ora le frecce al suo arco sono (quasi) finite. La crescita dell’area euro è più o meno pari a quella americana, ci sono sette milioni di occupati in più, l’inflazione resta sotto le attese ma è comunque risalita a livelli fisiologici. Dopo aver ricevuto enormi vantaggi dal piano straordinario di acquisto di titoli pubblici, per l’Italia è venuto il momento di affrontare i costi: il Tesoro stima che potrebbero arrivare a 25 miliardi di euro entro il 2020. Per quasi tre anni quel piano ha contenuto il differenziale fra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi sotto il due per cento, e ciò ha significato risparmiare svariati miliardi in interessi sul debito. Per dirla più chiaramente, Francoforte si è fatta carico del rischio Italia sui mercati. Il bilancio della Banca centrale europea però non può crescere all’infinito, pena la creazione di bolle speculative: ha superato i quattro trilioni di attivi e diventerà grande come quello della Federal Reserve americana. La drastica riduzione del livello degli acquisti dagli attuali 60 miliardi di euro al mese significa rinunciare all’ombrello che ci ha protetto dalle intemperie, dentro e fuori casa: dalla Brexit al (fallito) referendum costituzionale, dalla crisi di Mps e delle banche venete alla paura per il voto francese.

Fare una stima precisa di quel che accadrà non è semplice. Molto dipenderà dalle condizioni esterne e dal modo in cui il prossimo governo gestirà la finanza pubblica. Se i partiti (tutti quanti) realizzassero quel che vanno raccontando in termini di maggiore spesa pubblica, il disastro sarà dietro l’angolo. Ma gli economisti si sono già esercitati, e fra questi quelli che lavorano al Tesoro. Il governo tiene già in parte conto di quel che accadrà, non è un caso se la previsione di crescita, quest’anno fissata all’1,5% nel 2018 scenderà all’1,1 anche per effetto del probabile aumento dei tassi.

La recente nota di aggiornamento al documento di economia e finanza ha immaginato però anche due scenari più pessimistici. Il primo parte dall’ipotesi che nei prossimi mesi i mercati spostino rapidamente l’attenzione sui titoli più sicuri (quelli tedeschi) aumentando (per i Btp italiani) il costo del premio di rischio. Secondo questo scenario lo spread italiano salirebbe di 200 punti in pochi mesi per rimanere su quei livelli fino a metà del 2019. Se così fosse, la spesa per interessi si mangerebbe l’avanzo primario (la differenza fra entrate e spese al netto di quella per interessi) dell’1,1% entro il 2020, circa 20 miliardi di euro; la crescita perderebbe mezzo punto nel 2019 e nel 2020.

Il secondo scenario è ancora più pessimista. In questo caso al rischio di credito – la zavorra che ci portiamo dietro per il solo fatto di essere il terzo debito pubblico del mondo – si ipotizza che sui mercati aumentino i timori per uno stallo di governo dopo il voto di primavera. Vero è che la legge elettorale in discussione al Senato – meglio noto come Rosatellum bis – riduce un po’ quel rischio. Resta il fatto che le proiezioni dei sondaggisti non promettono bene: ad oggi non c’è una maggioranza certa nemmeno nel caso di un patto fra il Pd di Renzi e Forza Italia. Ebbene, in questo secondo scenario i tecnici di via XX Settembre stimano che la crescita potrebbe deprimersi di un decimale nel 2018, di otto nel 2019 e di quasi un punto percentuale nel 2020. Per effetto dell’aumento dei tassi, l’avanzo primario scenderebbe di un decimale nel 2018, di mezzo punto nel 2019 e dell’1,5 per cento nel 2020: al cambio sono poco più di 25 miliardi di euro.

Detta in estrema sintesi, quei 25 miliardi di euro sono il prezzo dei divario di competitività con la Germania che l’Italia in questi tre anni non è riuscita a colmare. Quel divario diventerà più evidente al decrescere degli stimoli monetari. La Germania cresce ancora ad un ritmo di un quarto superiore all’Italia, è in piena occupazione, ha un debito sotto controllo e il deficit pubblico vicino al pareggio. La rappresentazione plastica di quel divario è lo zero disegnato dai funzionari del ministero delle Finanze tedesco per salutare Wolfgang Schaeuble.

Twitter @alexbarbera

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