La ‘Stidda’ cerca di intimidire con locali attentati. Cos’è la ‘Stidda’

Dopo l’operazione antimafia di pochi giorni addietro tra la Sicilia e la Lombardia con 110...

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Dopo l’operazione antimafia di pochi giorni addietro tra la Sicilia e la Lombardia con 110 arresti la ‘Stidda’ cerca di intimidire a Gela (CL) con attentati.

È il terzo attentato incendiario, in pochi mesi (il secondo in una settimana) contro il bar “Lory”, in via Palazzi, nel rione “Caposoprano”, a Gela in provincia di Caltanissetta. I coniugi proprietari del bar Lory avrebbero dichiarato di non aver ricevuto né minacce né richieste di denaro.

Dalle immagini del sistema di videosorveglianza del locale si vede un giovane travisato dal casco che arriva in ciclomotore, versa del liquido infiammabile davanti alla saracinesca del bar, appicca il fuoco e fugge. Il tutto in meno di un minuto. Lievi i danni, contenuti dal pronto intervento dei pompieri.

In città, l’episodio viene letto come la risposta dei clan all’operazione antimafia “Stella cadente” di Polizia e Magistratura che ieri hanno proceduto all’arresto di 110 presunti affiliati alla “Stidda” gelese, tra la Sicilia e la Lombardia, che facevano capo alla famiglia mafiosa dei Di Giacomo.

La ‘Stidda’ è un’organizzazione criminale di tipo mafioso, che opera in prevalenza nella parte della Sicilia tra le nelle province di Agrigento, Caltanissetta, Enna, Ragusa e Catania. Secondo un collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, nella metà degli anni ottanta numerosi mafiosi della provincia di Caltanissetta, che erano stati legati al boss Giuseppe Di Cristina ed anche “messi fuori confidenza”, cioè espulsi dalle loro cosche, organizzarono dei propri gruppi criminali, assoldando specialmente bande di microcriminalità minorile e malavitosi comuni “Le “stidde” sono un’espressione di Cosa Nostra. Un uomo messo fuori confidenza che punge altri uomini diventa “stidda”. C’è stata una rottura perché in alcuni paesi si sono create due Famiglie. Uno di questi paesi è Riesi (CL), centro storico per Cosa Nostra. Si è creato un gruppo dietro Di Cristina ed un gruppo dietro ai Corleonesi. Quelli di Di Cristina hanno creato il congiungimento di tutte le “stidde”. Prima la “stidda” non aveva agganci con tutti mentre i riesani sapevano cosa vuol dire e quanti uomini d’onore nei paesi erano messi fuori confidenza. A questo punto hanno aggregato a loro Ravanusa, Palma di Montechiaro, Racalmuto, Enna ed altri paesi creando una corrente. Si conoscono tra di loro, sono gli uomini d’onore, buttati fuori, che combattono Cosa Nostra; è la stessa mafia e non un’altra organizzazione che viene da fuori”.

Negli anni Ottanta erano quindi pastori, ladri, rapinatori che si erano messi in testa di essere un clan, e di fare la guerra alla mafia ufficiale, la Cosa nostra di Riina e Provenzano, nel cuore della Sicilia, fra Agrigento e Caltanissetta. In tanti furono uccisi, chi restò in vita venne invece mandato in esilio. Un passato che sembrava non dovesse più tornare.

Invece chi negli anni ’80 era stato esiliato poiché non allineato alla Cosa nostra ufficiale di Totò Riina, oggi è tornato con l’obiettivo di scalare nuovamente le posizioni di vertice dell’organizzazione. Il colpo inferto dalla DDA di Caltanissetta e da quella di Brescia è la prosecuzione di un’operazione iniziata già a luglio, che aveva portato ad arresti all’interno del clan Inzerillo, tra Palermo e New York.

In merito a queste cosche siculo-americane si è scritto in “Dalla residenza in America faceva eleggere il sindaco in Sicilia” e “Il Magistrato dr. Giovanni Falcone.

La Squadra Mobile di Caltanissetta e il Servizio Centrale Operativo della Polizia aveva scoperto che i “ribelli” di un tempo sono diventati la nuova classe dirigente mafiosa che governa Gela, uno dei centri più ricchi della provincia di Caltanissetta. In trentacinque sono stati arrestati nella notte tra il 25 e 26 settembre in un blitz imponente, disposto dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta, che ha posto la città sotto assedio. Altri 15 fiancheggiatori dei padrini siciliani sono stati bloccati in Nord Italia su disposizione della DDA di Brescia, nell’ambito di un’ordinanza che riguarda complessivamente 75 persone, arrestate per reati finanziari, tutti legati agli affari dei clan. Gli accertamenti condotti con la collaborazione dalla Guardia di Finanza hanno portato a sequestri di beni per 35 milioni di euro.

L’inchiesta siciliana, curata dalla Squadra Mobile di Caltanissetta diretta dal Vicequestore aggiunto Marzia Giustolisi, racconta di un’organizzazione potente retta da alcuni scarcerati eccellenti, che ha sancito una solida pax mafiosa con la Cosa nostra ufficiale, sul territorio gestiva le attività classiche dei clan. Il più autorevole era Bruno Di Giacomo, il capo storico della Stidda, che era subito tornato in attività dopo aver finito di scontare vent’anni di carcere. Lo stesso avevano fatto i suoi fratelli, Giovanni e Vincenzo.

La “Stidda” era riuscita a trovare un canale preferenziale nel settore alimentare e in quello dell’intermediazione finanziaria, riciclando così i soldi derivanti da traffico di stupefacenti ed estorsioni. Tanti che erano stati scarcerati erano quindi ritornati prepotentemente sulla piazza per riprendersela, come una nuova mafia, quella dei manager e dei reati finanziari, con meno violenza e più investimenti nell’economia legale. A Caltanissetta in manette sono finiti capi, gregari e sodali della “stidda” che gestiva il traffico di stupefacenti e si infilava nell’economia legale con imprese di comodo, facendo estorsioni e imponendo i prodotti delle loro aziende. In Lombardia, invece, l’operazione congiunta Polizia-Finanza ha smascherato la cosca mafiosa di matrice stiddara che operava in settori economici commercializzando crediti d’imposta fittizi per decine di milioni di euro.

“Dal traffico di droga alle estorsioni – spiega Francesco Messina, al vertice della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia – i proventi venivano poi reinvestiti in aziende nel settore alimentare”. I boss imponevano i propri prodotti. Chi si ribellava, era vittima di incendi e danneggiamenti.

“Ci siamo trovati di fronte a un’organizzazione paragonabile all’Ndrangheta – prosegue Messina – per capacità di penetrazione del territorio, ma anche per le attività svolte in Nord Italia”. In Lombardia e in Piemonte, alcuni mafiosi si erano trasformati in esperti manager del settore dell’intermediazione finanziaria. Le aziende decotte e le cessioni dei crediti erano diventati un altro lucroso business.

Nelle intercettazioni i nuovi vecchi boss dicevano di avere a disposizione “500 leoni”, un esercito da scatenare. Ma Gela non è più quella di trent’anni fa, per fortuna, e oggi qualche commerciante ha trovato il coraggio di denunciare le estorsioni. La Sicilia cambia. E i boss 2.0 si sono adeguati. Meno violenza e più affari. Da Caltanissetta a Palermo è la stagione di nuovi investimenti nell’economia legale. Anche se i cognomi sembrano riportare a un passato lontano. Ma Totò Riina, il capo dei capi, il tiranno di Cosa nostra, è ormai morto e con lui la stagione dei mafiosi Corleonesi che avevano una sola legge: chi non è con noi, è contro di noi. Così, poco a poco, sono caduti tutti i veti, tutti gli editti, a Palermo sono tornati gli Inzerillo dall’America, a Caltanissetta sono tornati gli stiddari. E sono tornati con tanti soldi in tasca, quelli mai sequestrati. Quei soldi stanno riorganizzando la nuova mafia che vuole riprendersi la storia.

“Sono tornati, ma teniamo sotto controllo tutti i tentativi di riorganizzazione – conclude Francesco Messina – a luglio, è stato colpito duramente il clan Inzerillo, in un’operazione fra Palermo e New York. Adesso, Gela”.

L’attenzione è sugli scarcerati. Sono quasi quattrocento in Sicilia negli ultimi tre anni. Gente che ha finito di scontare il proprio debito con la Giustizia e tornando in libertà pensa di ricominciare come se il tempo fosse rimasto fermo agli anni Ottanta.

Adduso Sebastiano

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