Sono stata diagnosticata Asperger, mi chiamo Chiara e ho 34 anni

Mi chiamo Chiara, sono l’ultima figlia di tre e sono stata diagnosticata Asperger. Mio fratello...

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Mi chiamo Chiara, sono l’ultima figlia di tre e sono stata diagnosticata Asperger. Mio fratello ha quindici anni più di me e mia sorella dieci. 

L’ultima figlia di Ogino-Knaus, quella che capita un po’ per caso.

Sono stata diagnosticata Asperger, mi chiamo Chiara e ho 34 anni

Era, la mia, la classica famiglia dove papà è un dirigente di azienda che lavora dodici ore al giorno e la mamma, casalinga, è impegnata con i figli. E quindi l’attenzione poteva non essere esattamente su di me.

Magari si sarebbero accorti di qualcosa in più se fossi stata figlia unica.

Già da bambina c’era qualche segnale del mio essere Asperger.

Sono sempre stata una abbastanza per i fatti miei. Ho sempre odiato i rumori molto forti e noi eravamo una famiglia da feste ogni sabato sera. La mia prerogativa era di andare a nascondermi dentro allo sgabuzzino delle scarpe e stare lì con un libro.

Ho iniziato a leggere a quattro anni. Mia madre ha sempre detto: “Sono sempre stata orgogliosa che fossi stra-intelligente.”

I primi problemi arrivarono all’asilo perché mangiavo quattro cose, proprio quattro. Pasta in bianco, cotoletta, patate lesse e uova. Mia mamma ricorda ancora che una volta provò a ingannarmi dandomi dei filetti di merluzzo fatti da lei invece che quelli confezionati e che io a tre anni le risposi: “Non mi sembra il caso perchè non sono usciti dalla scatola blu della Findus”.

Quando andavo all’asilo, una volta mi hanno lasciata sulla cattedra per delle ore, mentre tutti gli altri bambini giocavano, perché dovevo mangiare un piatto di spinaci. Ovviamente non li ho mangiati. Sia mai.

A un certo punto è dovuta intervenire la pediatra perché non mangiavo più niente.

Alle elementari ho deciso che avrei cambiato vita diventando una bambina più amata dalle altre persone. Ho sempre avuto una grande passione per i paesi nordici, ho una zia svedese acquisita e poi ero biondissimissima. Quindi avevo deciso che sarei diventata svedese.

Ho letto tutti i libri sulla Svezia, le enciclopedie, sono andata a riprendere tutte le cartoline di mia zia e qualche vocabolo che utilizzava quando parlava con noi bambini. Mi comportai per mesi da svedese.

Finché un giorno sono stata male e hanno chiamato mia madre per farmi venire a prendere. La maestra le dice tutta tranquilla: “Certo, deve essere stato molto difficile trasferirsi”. Lì il mio castello di carte è crollato. Mia madre capì che era stato uno sforzo per farsi accettare, per giustificare atteggiamenti diversi da quelli degli altri bambini.

I problemi sono arrivati alle medie, dove c’è stato il mio primo meltdown serissimo. Esasperata da più di quattro ore di matematica, ho iniziato a graffiarmi la faccia.

Alla fine delle superiori ho capito che vivere così non era cosa. Ero quella senza un ragazzo, senza amici. Così ho fatto un altro switch. Mi sono detta: “Inizio l’università, devo diventare una persona diversa.” Ho iniziato a fare la “signorina”. Portavo i capelli lunghi, ero molto curata, uscivo tantissimo, facevo serata, incontravo un sacco di gente.

Mi sono iscritta a comunicazione interculturale, ma ho dato un solo esame, poi ho iniziato a programmare da autodidatta, finché a un certo punto ho aperto una partita iva e ho iniziato a lavorare come web designer, lasciando l’università.

In quegli anni la mia vita è di nuovo cambiata. Si parla tanto di masking, ma questa ne è l’esasperazione. Dire ogni tot di anni: “Ok, divento un’altra persona”. E diventi un’altra persona perché hai visto quella che fa così e quell’altra che fa colì, allora metti tutto in un unico calderone, costruisci il tuo bel personaggio e ci campi un po’ di anni.

A quel punto sono andata dalla mia dottoressa e le ho detto: “Mi guardi un attimo. Sono così e piango tutti i giorni. Ci deve essere qualcosa che non va”. Ho iniziato ad andare da uno psicologo. Lì ho beccato questa tirocinante di psicologia, che mi guarda e dice: “Senti, io vedo che ci sono delle cose che potrebbero essere attribuite all’autismo, però non ti posso fare una diagnosi, perché sono una tirocinante.”

All’inizio mi è scivolato addosso. Non sapevo nulla di autismo, gli unici autistici che avevo visto nella mia vita erano quelli non verbali, che dondolavano tutto il giorno. Uno stereotipo.

Verso i 23 anni ho iniziato a convivere con un ragazzo. Una sera vediamo un film, “Molto forte, incredibilmente vicino”, tratto da un libro di Jonathan Safran Foer. Parla di un ragazzino che non si dice mai fino alla fine che sia autistico.

C’è una scena in cui inizia a spiegare come si sente quando sta in mezzo alle persone, ha paura di salire sui ponti, porta sempre un sonaglietto per calmarsi. A un certo punto, tira su la maglietta e fa vedere che è pieno di lividi dati dai pizzicotti.

E io in quel periodo mi tiravo pugni sulle gambe (perché avevo capito che darmeli in faccia non era cosa).

È stata la prima volta che ho sentito la parola “Asperger”.

Fino ai 32 anni, ho lasciato questa cosa da parte. Mi ero convinta che una diagnosi non avrebbe cambiato nulla.

Poi è arrivato il mio ex marito. Quando sono rimasta incinta mi è tornato il flash in cui dicevano: “I figli degli Asperger potrebbero essere Asperger e i maschi hanno più problemi delle femmine”.

Quando è nata una bambina mi sono sentita sollevata. Poi ho iniziato ad avere problemi di depressione post-parto. Durante il primo lockdown ho scoperto dell’esistenza di questo centro a pochi chilometri da casa mia che diagnostica anche gli adulti. Così sono andata.

La mia diagnosi è di autismo di livello 1 perché l’Asperger, ufficialmente, non esiste più.

Da lì mi sono accorta di non riuscire a interpretare le emozioni altrui, visivamente. 

In uno dei test ti mettono 5 o 6 carte con delle immagini di scimmiette e ti chiedono di ricostruire la storia. Queste scimmiette hanno tutta una serie di espressioni che tu dovresti riuscire a interpretare, che io ho interpretato completamente a cazzo. Poi ci sono i test logici, ad esempio sulle matrici.

La psicologa mi ha detto: “In questi anni io non ho mai visto nessuno con questo punteggio”.

Poi mi hanno dato la diagnosi scritta e abbiamo iniziato un percorso.

Abbiamo scavato sulla parte del masking, della carica energetica che posso avere durante la giornata, come preservarla, cosa mi scarica e cosa mi carica.

Le stereotipie da Aspie più presenti sono i dondolii, il dover giocherellare con qualcosa. Sfarfallo con le mani se sono felice. Ho delle cose che mi fanno rilassare che non faccio quando sono in società, tipo stare sul divano a testa in giù. Per addormentarmi devo stare per forza in una determinata posizione.

I miei interessi assorbenti sono molto variegati. Sono spesso legati alla musica: suonare la chitarra, il basso. Finché non imparo a suonare veramente bene non sono contenta. Qual è il limite di bene? Significa martoriarsi le dita per ore e fare solo quello. Stessa cosa per i libri o per il lavorare a maglia.

Siamo arrivati anche a capire che non sento le emozioni di mezzo. In una scala da uno a dieci in cui l’emozione uno è devastante e dieci è essere felicissimi, io sento dall’uno al tre e dal sette al dieci. Tutto quello che c’è in mezzo e che mi succede, il mio corpo e la mia mente ne sono affetti, ma io non me ne accorgo.

Ho difficoltà a riconoscere le emozioni degli altri, ma le sento molto. “Sentire” è diverso da “capire”. Capisco se sei molto triste o molto felice perché le espressioni del viso sono abbastanza codificate. Se sei una via di mezzo difficilmente me ne rendo conto.

Io non avrò mai una relazione duratura. Non riesco a concepire il fatto di provare attrazione solo per una persona. Mi innamoro di chiunque: maschio, femmina, cane, gatto.

Il sesso è una roba primaria per me, come la sensualità e la parte di corteggiamento. In alcune relazioni è solo quella la parte divertente.

La consapevolezza di essere diversa dagli altri mi è arrivata negli ultimi sette/otto anni, prima non era un “forse non funziono come gli altri” ma più un “forse sono sbagliata”. Quando ho iniziato a capire che avrei potuto essere Asperger, mi sono ammorbidita.

Credo di essermi sempre sentita molto difettosa nelle relazioni. Quindi adesso faccio questo esercizio: mi chiedo se la persona con cui sto parlando ragiona come me.

Se non è così non è colpa di nessuno, è come se io stessi parlando in inglese e tu in cecoslovacco, sono due lingue diverse, quella che manca è una lingua intermedia con cui capirsi.Non è più colpa di uno o dell’altro, ma del linguaggio che si usa.

Ci vorrebbe l’esperanto! Che poi l’esperanto era un’invenzione figa, solo che probabilmente non è stata capita perché chi l’ha inventato non era neurotipico.

La cosa più difficile da gestire sono i meltdown. Solitamente sento qualcosa che parte dallo stomaco. Lo stomaco si restringe tantissimissimissimo e poi esplode. Inizio a piangere. Inizio a farmi del male perché non voglio fare del male agli altri.

Potrei sbattere pugni su un muro, su un cuscino o contro un’altra persona, perché è come se avessi troppa energia dentro. Prendo a pugni me stessa, le cosce sono la mia parte preferita. Sono facilmente nascondibili dai vestiti e sono la cosa più vicina. Dopo lo sfogo, continuo a piangere, dondolare e a fare tutte quelle cose che mi possono calmare. Il problema poi è il dopo. Come ti riprendi da quello.

Non riesco a fare nulla che riesca a togliermi da quello stato catatonico, posso solo aspettare che passi. È veramente come se fossi una pentola a pressione: scoppi, dopo però sei vuota. Resti a letto. Non ti senti triste, solo stanca, svuotata. Anche volendo non riuscirei a parlarti.

Perché non sono tutti Asperger? Perché è diversa la difficoltà di affrontare la vita.

Le difficoltà che hanno gli Asperger sono date più dalle piccole cose: i grandi problemi ce li abbiamo tutti, sono più le piccole cose che ci fanno sclerare. Tipo per me una giornata come questa, in cui sono nel mio ufficio tutto il giorno e poi esco. Sono cose piacevoli, ma che richiedono di avere molti rapporti con le persone e quindi sforzarsi di capire cosa pensano.

Per me non è facile parlare con te e avere una chiacchierata normale: sono qui che penso a mille altre cose in modo relativamente inconsapevole. Mi scarica proprio le batterie. Questa è anche una difficoltà sul lavoro.

Oppure stare in un bar, ascoltare, ascoltare tutto, sentire anche il discorso della signora dietro, e magari l’altra persona pensa che tu non le stia prestando attenzione. E in realtà sto ascoltando la signora qua dietro, ma sto ascoltando anche te.

E quindi in realtà ascolto tutti, sento tutto, io sto ascoltando e anche bene.

Ma ci sono talmente tanti stimoli attorno, talmente tante luci, talmente tante cose che succedono, che per me è difficile concentrarmi solo su una cosa. E questo ti scarica tanto le batterie, se non hai la capacità di ritagliarti i tuoi spazi.

Secondo me una buona parte del convivere con l’essere Asperger sta nell’avere la consapevolezza di qual è il tuo limite. E questo lo impari con una diagnosi. Mi piacerebbe che fosse meno demonizzata la cosa dell’avere una diagnosi da grande.

Lo fai a trent’anni perché ti dà il senso di quello che è successo prima. 

Spiegazioni, non giustificazioni, e poi perché ti dà la possibilità di crescere ancora e ti dà degli strumenti per farlo in maniera più sana, non spingendoti al massimo per essere normale, ma appunto accettandoti per come sei. 

Il masking è normale, lo fanno anche i neurotipici. Ed è anche buono saperlo fare. In una società non puoi essere sempre te stesso, è brutto, ma è così. Ed è giusto anche che non sia demonizzato il fatto che io dica: “Senti, sono Asperger, sono autistica”.

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