Camorra in dosi: la camorra dell’800 nelle carceri

La camorra, già ai tempi dei Borbone, era padrona nelle carceri: imponeva estorsioni ai detenuti e dettava legge.

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La camorra, già ai tempi dei Borbone, era padrona nelle carceri: imponeva estorsioni ai detenuti e dettava legge.

Nel carcere di Castel Capuano, o come più comunamente denominato della “Vicaria”, spadroneggiava la camorra.

Costruito sotto il regno di Guglielmo II nel XVI secolo, L’istituto penitenziario divenne al tempo dei Borboni il più affollato del reame.

Quando un nuovo detenuto varcava i suoi cancelli diveniva carne da macello della camorra.

Un camorrista si avvicinava a questi, e incominciava a chiedere denaro per il Lume delle Madonna.

L’immagine della Madonna a Napoli era affissa in tutte le strade e nei luoghi più profani, taverne, bische e perfino nei bagni pubblici.

Le prostitute, al pari di ogni altra donna, la veneravano, e non mancava sopra il loro letto una sua immagine che giravano accuratamente ogni qualvolta si verificava un amplesso.

Erano i camorristi a fornire l’olio per la sacra immagine, e ne procuravano così tanto da illuminare tutta la città.

Il detenuto doveva un decimo del denaro che gli perveniva alla camorra.

Un uomo lo vigilava costantemente a pagare i contributi.

Si pagava per mangiare, bere, fumare, giocare, per comprare, vendere, per avere giustizia e per ottenere privilegi.                                                                                                  Chi si rifiutava veniva punito con la violenza, ma quasi tutti accettavano senza opporsi.

Molti detenuti vendevano per pochi spiccioli ai camorristi i vestiti che ricevevano dal carcere, parte delle razioni di pane e di minestra.

Lo facevano per fumare un sigaro, bere un bicchiere di vino o per giocare alla morra o al tocco.

Gli uomini dei sodalizi rivendevano il tutto ai fornitori delle carceri che, senza scrupolo, rinviavano la stessa merce ai detenuti creando un circolo vizioso dove due speculatori si arricchivano sulle loro spalle.

I camorristi mantenevano l’ordine e la sicurezza nel carcere molto meglio dei secondini, anzi, il più delle volte erano questi che richiedevano dei servizi.

Ogni mattina erano i camorristi, armati di pugnali e bastoni, che tiravano fuori dai letti i detenuti, si facevano dare un Carlino per l’affitto del pagliericcio, facevano l’appello, garantivano la disciplina e si assumevano il monopolio della violenza e del disordine.

Proibivano agli altri di seguire il loro esempio e violare i diritti che si attribuivano.

Ma da dove prendevano le armi i camorristi?

In tutte le carceri ogni sodalizio aveva un proprio deposito detto pianta. Era così nascosto che era quasi impossibile trovarlo.

Nonostante i controlli, i capi dei clan portavano sempre con se 3 coltelli.

In un episodio narrato dal Monnier, un ispettore del carcere della Vicaria, venuto a conoscenza di questi coltelli, ordinò una perquisizione.

Le armi vennero ritrovate all’interno della buca di una latrina.

Nonostante fossero state sequestrate, dopo neanche mezz’ora, l’ispettore si accorse che i camorristi erano nuovamente armati. Uno di questi, in maniera provocatoria si rivolse all’ispettore: “toglieteceli, tra un quarto d’ora ne avremo altri 3!”.

Ma quali erano le pene che i camorristi infliggevano a chi non rispettava le regole?

Per i fatti meno gravi erano la privazione dell’onore del voto nelle assemblee e la sospensione dalla camorra che poteva durare da 6 mesi ad 1 anno.

Le pene più severe erano l’espulsione definitiva e la condanna a morte.

Queste venivano date solo nel caso di infrazioni molto gravi come l’inganno o il tradimento della società, la slealtà verso i compagni, l’adulterio con la moglie di un camorrista, lo sfregio o l’assassinio eseguito dietro istigazioni di persone estranee al sodalizio.

La pena di morte veniva pronunciata nel corso di un vero e proprio dibattimento organizzato dalla camorra con tanto di un P.M., un avvocato difensore, giudici e testimoni, logicamente tutti interni alla sette.

Le pene venivano eseguite dai Picciotti di sgarro che si accollavano di buon grado il compito dell’esecuzione.

Riflessioni sul presente

La camorra è ancora oggi padrona nelle carceri.

Diverse informative della polizia giudiziaria e rapporti sulle carceri evidenziano il comportamento di sottomissione dei detenuti nei confronti di alcuni personaggi illustri della camorra.

Forse l’immagine che più rende l’idea è quella della serie TV Gomorra, quando il personaggio interpretato da Fortunato Cerlino, Pietro Savastano, finisce in carcere durante la prima stagione.

I compagni di cella all’arrivo del boss gli cedono il letto più comodo, lo scortano in qualsiasi spostamento, gli servono il caffe e sottostanno a qualsiasi suo ordine.

Parliamo pur sempre di una serie tv ma che realisticamente descrive la sudditanza psicologica dei detenuti nei confronti delle figure di spicco dei clan locali, i cosiddetti uomini d’onore.

Nonostante il carcere dovrebbe allontanare i boss dagli affari della cosca di appartenenza, questi, nella maggior parte dei casi riescono a fornire direttive e ordini ai propri uomini.

È proprio il caso di Pasquale D’Alessandro, il boss stabiese da poco tornato libero. (clicca e leggi l’articolo)

Dagli atti dell’inchiesta Cerbero emergono le intercettazioni dei colloqui del boss stabiese con i suoi parenti, ai quali indicava gli imprenditori stabiesi che avrebbero dovuto garantire il loro supporto economico alla famiglia.

Altro fatto eclatante fu l’omicidio di Aldo Montuori, ucciso all’esterno di un bar di Pontecagnano.

L’ordine di uccidere l’imprenditore Salernitano, per la magistratura, sarebbe arrivato direttamente dal carcere dal boss dei Cesarano Luigi Di Martino, alias o’profeta.

Nonostante ciò una parte della politica sta ben pensando di eliminare il regime del carcere duro, il cosiddetto 41bis.

Nel corso degli anni diverse istituzioni e associazioni si sono pronunciate contro l’istituto.

Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (C.P.T.) ha visitato le carceri italiane per verificare le condizioni di detenzione dei soggetti sottoposti al regime ex art. 41-bis.

Ad avviso della delegazione, questa particolare fattispecie di regime detentivo era risultato il più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva.

La delegazione intravedeva nelle restrizioni gli estremi per definire i trattamenti come inumani e degradanti.

I detenuti erano privati di tutti i programmi di attività e si trovavano, essenzialmente, tagliati fuori dal mondo esterno. La durata prolungata delle restrizioni provocava effetti dannosi che si traducevano in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili.

Negli anni 2000 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stata varie volte chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità del 41-bis con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e non ha ritenuto la disciplina, in linea di principio, in contrasto con la suddetta Convenzione, ma ne ha censurato singoli contenuti e aspetti attuativi.

Nel 2003 Amnesty International ha sostenuto che il 41-bis equivale, in alcuni casi, a un trattamento del prigioniero “crudele, inumano e degradante”.

Nel 2007 un giudice degli Stati Uniti ha negato l’estradizione del boss mafioso Rosario Gambino, poiché a suo avviso il 41-bis sarebbe assimilabile alla tortura.

Dal canto suo la giurisprudenza costituzionale italiana si è sempre pronunciata positivamente sulla compatibilità costituzionale del 41-bis con i principi costituzionali.

Solo nel 2013 la Corte Costituzionale dichiarò illegittime le limitazioni in materia di colloqui con l’avvocato difensore.

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A cura di De Feo Michele / Redazione Campania

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