Camorra in dosi: come si diventava camorrista

Già dall’800,per diventare camorrista, bisognava dimostrare il proprio onore attraverso prove di coraggio e rituali solenni.

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Già dall’800,per diventare camorrista, bisognava dimostrare il proprio onore attraverso prove di coraggio e rituali solenni.

Si iniziava ad essere “garzoni di malavita”: si era tenuti ai compiti più rigorosi, si dovevano portare “ambasciate” ai camorristi nelle prigioni o nelle case e adempiere a mille incarichi subalterni.

Chi dimostrava coraggio e abilità diveniva “picciotto di sgarro”.

Secondo altri, il neo aspirante camorrista iniziava ad essere “tamurro”, diveniva “picciotto d’onore” e dopo aver prestato servizi per qualche anno alla consorteria diveniva “picciotto di sgarro”.

Il “picciotto di sgarro”

Gli aspiranti “picciotti di sgarro” dovevano superare “la prova della moneta”.

I camorristi si mettevano in cerchio intorno ad un tavolo dove al centro posizionavano una moneta. Al segnale, tutti insieme dovevano cercare di infilarla con la punta dei loro pugnali.

L’aspirante picciotto doveva cercare di impadronirsi della moneta gettando le mani tra le lame.

La maggior parte delle volte il novizio ne usciva con le mani bucate, ma se riusciva, diveniva “picciotto di sgarro”.

La prova venne più tardi sostituita con una più mite: la “tirata a musco”, ossia un duello con il coltello tra due aspiranti picciotti estratti a sorte.

Le lame non dovevano toccare gli arti, al primo sangue la prova terminava.

I duellanti si abbracciavano e diventavano “picciotti di sgarro”

Il “picciotto di sgarro” era già una figura fondamentale per l’organizzazione criminale.

Doveva dimostrare di sapersi destreggiare con un coltello e saper conservare un segreto. Doveva essere in grado di sfregiare il viso di un uomo e, all’occorrenza, uccidere.

Il camorrista lo utilizzava per compiere i propri affari criminali, ricompensandolo con pochi soldi.

Non doveva mai tirarsi indietro ai compiti assegnati e doveva accettare ogni umiliazione e fatica senza mai lamentarsi.

Tutti i picciotti erano guidati da un forte senso di appartenenze, grande riconoscenza e guidati dall’onore.

Si racconta che ogni qualvolta che un camorrista doveva assegnare un compito ai propri picciotti, a causa della totale disponibilità e dal senso dell’onore di questi e per non far sì che si creassero gelosie interne al sodalizio, era costretto a tirare a sorte il nome di chi doveva compiere l’atto criminale.

Più erano i crimini che si commettevano, più anni di galera si scontavano e più si entrava nelle grazie dei capi e, di conseguenza, aumentavano le probabilità di diventare camorrista.

Da picciotto a camorrista

Per ottenere il titolo di camorrista era necessario appartenere ad una famiglia onorevole, ossia non essere figli di prostitute e non essere imparentati con sbirri, gendarmi o marinai.

Inizialmente erano esclusi i ladri.

Quando un picciotto veniva scelto per diventare camorrista, i camorristi più importanti del sodalizio si sedavano ad un tavolo per esaminare il suo curriculum, in caso di nomina si procedeva con un rito solenne.

Tutti sedevano attorno ad una tavola dove al centro venivano posizionati un coltello, una pistola carica e un bicchiere di vino avvelenato.

L’aspirante camorrista entrava accompagnato da un barbiere della setta con le funzioni di chirurgo.

Questo apriva con la lama posta sul tavolo la vena del braccio sinistro dell’aspirante.

Questo bagnava la sua mano con il proprio sangue e, stendendola verso i camorristi, giurava di mantenere sino alla morte i segreti della setta e di essere pronto a qualsiasi ordine dei superiori.

Poi infilzava il pugnale sul tavolo e, prendendo in mano il bicchiere di vino e la pistola, si dichiarava pronto a suicidarsi qualora il capo glielo chiedesse.

Il capo, a quel punto, ordinava di posare la pistola e il bicchiere di vino, si avvicinava al novizio e, di fronte a lui, scaricava la prima e frantumava il secondo.

Ponendogli una mano sul capo lo nominava camorrista e invitava tutti i compagni seduti al tavolo ad abbracciarlo.

Questo rituale venne successivamente sostituito con uno meno teatrale.

Il noviziato veniva convocato all’uopo della consorteria, entrava in una sala con al centro un tavolo dove erano seduti i camorristi e il capo del sodalizio.

Questo prestava un giuramento e sfidava a duello, secondo le regole della “tirata”, uno dei componenti.

Alla fine il capo lo abbracciava e lo proclamava camorrista.

Entrambi i riti erano seguiti da un abbondante banchetto che aveva luogo in campagna o in prigione, a seconda se il neo camorrista entrava in una sezione di compagni liberi o carcerati.

Le riflessioni sul presente

La camorra pone alle fondamenta della propria macchina infernale decine di ragazzini minorenni, gli ex “picciotti di sgarro”.

Questi vengono schierati dai clan nelle loro trincee per combattere in prima fila le guerre tra i sodalizi e contro lo Stato.

Fin da bambini vengono indottrinati indirettamente da un contesto, ricco di droga e sangue, che sviluppa in loro una sottocultura basata sulla vita e sulle leggi della strada fondate sul principio: “se non voglio morire di fame devo mettermi a spacciare.”

L’abbandono dello stato, l’assenza di lavoro e di progettualità per il futuro rafforza e consolida questa mentalità annullando la prospettiva di una vita diversa da quella del camorrista.

Da questo contesto nascono i vari Pasquale Rapicano, Valentino Marrazzo, rispettivamente ex killer dei D’Alessandro e ex pusher dei Vitale, ora collaboratori di Giustizia, del baby boss Luigi D’Alessandro, e del neo super pentito Luigi Cimmino, ex boss dell’omonimo clan.

Tutti, infatti, con storie diverse, ruoli e responsabilità differenti, esordiscono in tribunale nel raccontare la loro carriera criminale, costernata di orrori e di morte, con l’identica frase: “signor giudice ero praticamente un ragazzino quando ho iniziato a fare il camorrista, avevo 13 anni…”

Uno degli allarmi che emerge nella relazione della DIA del primo semestre del 2021 è proprio l’aumento del coinvolgimento dei minori in fatti di camorra.

Ciò si riflette anche in numerosi episodi della cronaca locale.

A Dicembre, a Torre Annunziata, è stato arrestato un ragazzino di 17 anni con l’accusa di omicidio.

Il ragazzino avrebbe ucciso un uomo ritenuto vicino alla camorra con 7 colpi di pistola, per la DDA avrebbe agito per conta dello storico clan Gionta.

A Castellammare, le inchieste hanno ribadito il ruolo importante relativo ai minorenni in fatto di spaccio di stupefacenti e di episodi di sangue.

In Campania e in Calabria si ha il numero più alto di denunce a minori, soprattutto in reati di associazioni a delinquere.

Alla crescita dei reati commessi dai minorenni fa da contraltare la crescita di episodi criminali che vedono come vittime altri minori.

Negli ultimi anni si è acceso un dibattito su una probabile riforma dell’ordinamento giudiziario in materia di minori.

Il processo minorile è improntato sul perdono e sul reinserimento sociale del ragazzino che commette reati.

Una certa politica ha proposto, per contrastare il fenomeno della violenza minorile, di introdurre pene più severe e meno tolleranza nelle sentenze.

Ma chi vive realmente questa emergenza, combattendola ogni giorno in prima linea soprattutto nelle scuole di periferia e negli oratori dei quartieri abbandonati delle città, denuncia l’assenza e gli errori delle istituzioni ponendoli come causa del fenomeno, definendo appunto il reato del minore come la conseguenza immediata alle deficienze dello Stato.

Più che pensare ad inasprire le pene bisognerebbe organizzare degli interventi preventivi che abbiano come obiettivo il tener lontano i ragazzini da contesti criminali.

 

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a cura di De Feo Michele / Redazione Campania

 

 

 

 

 

 

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