Il fattore P come populismo agisce come elemento discriminante

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L’incontro di Parigi tra Macron e Renzi, avviene nelle stesse ore in cui Berlino sperimenta l’impossibilità di dar vita a un governo. «Il fattore P come populismo agisce ancora come elemento discriminante per segnare i confini dell’area della legittimità», commenta Giovanni Sabbatucci.

Il populismo che azzoppa i parlamenti

È facile oggi elencare gli errori di Angela Merkel e metterla sotto accusa per gli stessi motivi (le politiche migratorie) per cui era stata tanto lodata fino a ieri. Ed è inutile stupirsi più di tanto per le traversie in cui si dibatte in questi giorni il sistema politico tedesco, celebrato dai più come modello di stabilità e di funzionalità democratica. Né ha molto senso preoccuparsi per il destino della autorevolissima cancelliera, che non riesce a costruire una maggioranza, ma ha ancora buone probabilità di succedere a se stessa, magari attraverso un nuovo passaggio elettorale. La verità è che la Germania sta sperimentando sulla propria pelle difficoltà comuni a tutti i sistemi parlamentari europei; e che il suo modello politico-istituzionale, buono nell’epoca della guerra fredda e della divisione del Paese, non basta da solo a preservarla dagli scossoni che hanno compromesso in questi ultimi anni la governabilità di altri Paesi membri dell’Unione.

È appena il caso di ricordare che il Belgio (fra il 2010 e il 2012), la Spagna (fra il 2013 e il 2014) e da ultimo l’Olanda (2017) sono rimasti affidati per lunghi mesi o per interi anni a governi in carica «per gli affari correnti», in assenza di vere maggioranze politiche; e che la stessa Italia rischia di trovarsi da qui a qualche mese in una situazione analoga. I problemi nascono dalla combinazione di due fattori: il primo, strutturale, riguarda le regole dei sistemi parlamentari; il secondo, congiunturale, rinvia alle trasformazioni economiche e sociali che hanno segnato questo inizio di millennio.

Partiamo dal sistema parlamentare. Lo inventarono gli inglesi nel Settecento, per assicurarsi contro possibili tentazioni assolutiste della corona (cui la teoria di Montesquieu attribuiva la titolarità del potere esecutivo) e per sancire il primato degli organismi rappresentativi. Quella prassi subordina infatti l’esistenza del governo alla fiducia del Parlamento e dunque lo lega indissolubilmente agli equilibri che si creano nelle assemblee legislative. Perché il sistema funzioni occorre ovviamente che ci sia una maggioranza. E occorre che questa maggioranza non minacci i fondamenti costituzionali dello Stato, le sue scelte internazionali di fondo e i suoi valori condivisi: che si muova insomma all’interno di un’area della legittimità, oggi in larga parte coincidente con quella della fedeltà alle istituzioni europee e agli ideali europeisti.

Che cosa accade invece in Europa? Accade – e qui veniamo al fattore congiunturale – che le paure e i risentimenti suscitati dalla crisi economica e dalle ondate migratorie creino condizioni favorevoli allo sviluppo di movimenti populisti, nazionalisti, sovranisti, più o meno esplicitamente ostili alla Ue, ma spesso anche estranei ai valori e alle pratiche del pluralismo e della democrazia rappresentativa. In alcuni Paesi dell’Est (Ungheria e Polonia soprattutto) movimenti così connotati sono diventati forze di governo o parte delle maggioranze. In Europa occidentale quei gruppi restano lontani dalla possibilità di competere per il potere centrale (l’eccezione, stando ai sondaggi, potrebbe essere proprio l’Italia). Il fattore P (come «populismo») agisce ancora come elemento discriminante per segnare i confini dell’area della legittimità.

Ma è l’intera area a restringersi pericolosamente, causa i successi elettorali delle forze anti-sistema. E dentro quest’area può non esserci spazio per una maggioranza solida, men che meno per due maggioranze che si alternino in base ai verdetti delle elezioni. Neanche il ricorso alle grandi coalizioni sembra peraltro praticabile nel momento in cui i socialisti, come sta accadendo in Germania, si sottraggono a esperienze di governo per loro logoranti e costose in termini di consensi. Quanto ai governi di minoranza o governi del presidente, si tratta di formule nominalistiche che aggirano il problema senza risolverlo (un voto di fiducia qualcuno dovrà pur darlo), in assenza di un capo dello Stato dotato di poteri straordinari.

Se e quando si uscirà dall’impasse non è dato sapere. Sarebbe però opportuno cominciare fin d’ora a riflettere su come allontanare per il futuro lo scenario weimariano dell’ingovernabilità e del ricorso ripetuto alle urne. Il sistema tedesco – lo abbiamo visto – non basta allo scopo. Quello, nuovo di zecca, con cui andremo a votare fra pochi mesi, non è accreditato al momento di grandi effetti stabilizzatori. L’unico dispositivo elettorale capace di costringere gli elettori a una scelta e a indicare comunque un vincitore è quello basato su un doppio turno (nazionale e non solo di collegio) che costringa gli elettori a una scelta finale. Non è forse un caso se oggi la Francia, con tutti i suoi problemi, può vantare il più alto tasso di stabilità politica di tutta l’Europa occidentale.

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