Totò, una comicità senza tempo (e due sue poesie)

A 50 anni dalla morte Totò fa sempre ridere e rappresenta una salutare medicina per...

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A 50 anni dalla morte Totò fa sempre ridere e rappresenta una salutare medicina per lo spirito. Sotto la superficie delle sue gag, che divertono immediatamente, c’è uno strato più sotterraneo che lascia tracce profonde e lavora nel tempo. Ad aprile per ricordare il grande comico ci saranno feste da Lecce a Napoli.

Totò genio dinamitardo

A 50 anni dalla morte, il grande comico continua a parlarci. Tra Leopardi, Bergson e Pirandello, il potere liberante del riso

Oggi l’Italia non è certamente più quella povera e per tanti versi ancora arcaica uscita dalla guerra, che Totò ha raccontato nel suo periodo migliore. È un Paese «diversamente povero», ma insomma non è più quella cosa lì. Eppure, a mezzo secolo dalla morte, perché il Genio Comico può continuare a parlarci, perché rappresenta ancora una salutare medicina per lo spirito, anche se i suoi film non passano più a tutte le ore su tutte le tv grandi e piccole, come accadeva fino a una decina di anni fa?

Una possibile risposta l’aveva data in anticipo Henri Bergson, come molti filosofi interessato al fenomeno del riso: «Il rigido, il bell’e fatto, il meccanismo in opposizione all’agile, a ciò che è perennemente mutevole, al vivente, l’automatismo in opposizione all’attività libera, ecco ciò che il riso vorrebbe correggere» (dal saggio Le rire, pubblicato nel 1900). Totò, il cui genio comico si può fruire a più livelli, faceva (fa) precisamente questo. Sotto la superficie dei calembour, delle gag che divertono immediatamente, c’è uno strato più sotterraneo che lascia le sue tracce profonde e lavora nel tempo.

A caratterizzarlo non è soltanto l’oscillare continuo tra i registri del comico e del tragico, tra l’incombere della morte e la sfrenatezza della vita. È la fluidificazione di tutte le rigidità (fattuali, mentali), lo scardinamento delle convenzioni, la messa in discussione di ogni aspetto della realtà che ci circonda, a partire dal linguaggio e dai suoi luoghi comuni, che nella ripetizione ossessiva e nella ricercata storpiatura perdono ogni potenzialità significante (se mai l’avessero) riducendosi a puri suoni: «Io sono un uomo di mondo!», «Parli come badi!», «Desto o son sogno?», «Abbundantis abbundandum», «Moët & Chandon? Mo’ esce Antonio», «Chicche e sia», «Una mano lava l’altra», «A prescindere», «Eziandio»…

Da questo punto di vista – con la sua comicità istintiva figlia dei vicoli napoletani e della scuola dell’avanspettacolo, ma con radici nella tradizione etrusco-latina dell’atellana e dei fliaci – Totò rivela una latente parentela con Pirandello, al di là della memorabile interpretazione dello iettatore Chiàrchiaro nell’episodio che Luigi Magni trasse dalla commedia La patente in un film a episodi del 1954, o di quella nell’Uomo, la bestia e la virtù diretto nel ’53 da Steno. Anche Pirandello, come Bergson, aveva orrore delle forme che irrigidiscono la vita, che vincolano per sempre a determinati ruoli, perlopiù dettati dalle convenzioni sociali. E che non corrispondono alla sostanza più vera (dove c’è) dei personaggi: «il comico è avvertimento del contrario», spiegava nel saggio L’umorismo (1904). Citando come grande umorista inconsapevole il Copernico di Leopardi, che capovolge la presunzione umana di stare al centro dell’universo.

E Totò, come Pirandello – restando uguale a sé stesso in tutte le sue storie, sempre uno pur facendosi centomila -, sapeva che dietro ogni apparenza c’è sempre qualcos’altro, quel che si mostra è sempre una maschera, e basta mettersi di sopra di sotto di lato per veder sgorgare aspetti inattesi, per denudare le persone e le situazioni nella loro assurdità (Maschere nude è il titolo che lo scrittore di Girgenti volle dare all’insieme della sua opera teatrale). «Perfido e insinuante come una mosca cavallina», si fustigò il comico ricordando le angherie inflitte al povero Mario Castellani, spalla nell’irresistibile sketch del vagone letto.

La scena (nata a teatro e via via dilatata, prima di essere infilata in un paio di film) è quella dove un sussiegoso onorevole Trombetta ha la sventura di imbattersi sul treno con l’implacabile Totò-Scannagatti, che subito ne aggredisce la ridicola supponenza, lo dissemina di piccole cariche esplosive che tosto fa brillare, una dopo l’altra, fino a dissolvere non solo la dignità politica e la rispettabilità sociale del malcapitato, ma (letteralmente) lo denuda fino privarlo della sua stessa identità («Onorevole? Ma mi faccia il piacere!») e farlo portare via dalla polizia ferroviaria. Geniale. La mosca cavallina (o tarlo rumoroso) individua il punto critico, scava dall’interno la sua vittima e quando ha finito di scavare non resta che un guscio vuoto, da schiacciare nel pugno e soffiare via.

È anche per questa carica eversiva dinamitarda che Totò e i suoi tormentoni vennero adottati negli Anni Settanta dagli intellettuali engagé e dai giovani contestatori dell’ala più creativa del Movimento, sull’onda della riscoperta critica (il grande pubblico in verità non lo aveva mai abbandonato) patrocinata da Goffredo Fofi e Franca Faldini nel fondamentale Totò: l’uomo e la maschera, pubblicato nel ’77. Erano gli anni del pensiero debole e di Nietzsche e Marx che si davano la mano (come cantava Venditti), della distruzione delle vecchie certezze, o anche di ogni certezza. E in tutto questo anche il Genio Comico aveva la sua parte. «Terribile è la potenza del riso», ha scritto Leopardi, «chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire».

Totò fu anche un grande poeta e a noi piace ricordarlo anche con alcune sue composizioni:

Totò
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