Piangere in pubblico (Roberta Scorranese)

Una volta qui era tutta una valle di lacrime. Piangeva Ulisse, costretto a stare lontano...

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Una volta qui era tutta una valle di lacrime. Piangeva Ulisse, costretto a stare lontano dalla patria e piangeva Penelope, costretta a stare lontana da Ulisse; piangeva Patroclo e piangeva pure Achille, che prima aveva rimproverato l’amico perché singhiozzava «come una bambina»; piangeva persino il cavaliere Orlando, che si concesse anche un femmineo mancamento.

E oggi? Oggi qui è tutta una valle di lacrime. Piange Obama (durante il discorso sulle armi tenuto nel gennaio scorso alla Casa Bianca) e piangeva (sempre al momento giusto) Bill Clinton; piangono Barzagli e Buffon per l’eliminazione degli Azzurri all’Europeo 2016 (per non parlare del ct Antonio Conte) e piange la sconosciuta espulsa dall’Isola dei Famosi; piange la sindaca di Roma e, cosa interessante, secondo un sondaggio di «Opinium» diffuso dal Guardian , all’annuncio della vittoria del sì al referendum britannico che ha scelto l’uscita dall’Unione Europea, quasi la metà della fascia di giovani tra i 18 e i 24 anni ha pianto, a differenza degli adulti. Piangono tutti, o quasi.

Il singhiozzo inarrestabile dei calciatori dopo l’addio dell’Italia ai rigori contro la Germania ci ha ricordato che (almeno nel consumo di fazzoletti) una parvenza di parità tra i sessi il Novecento ce l’ha portata: il pianto in pubblico con tanto di nota isterica (tipico dell’eroina sventurata dell’Ottocento) appartiene sia agli uomini che alle donne. Anche se Nora Ephron, somma sacerdotessa dei cuori spaiati, ammoniva: «Gli uomini che piangono provano dei sentimenti, ma i soli sentimenti per i quali tendono a essere sensibili sono i propri». E poi: sebbene fatte delle stesse sostanze acquose e saline (pare strano ma la scienza del pianto resta un mistero: lo facciamo da tristi e da felici, forse è un primitivo codice di comunicazione non verbale, forse c’entra la quantità di testosterone, forse no), le lacrime di Ulisse e quelle di Buffon sono diverse.

Le prime sono state ben raccontate dallo scrittore Matteo Nucci nel libro Le lacrime degli eroi (Einaudi): nel mondo omerico, gli eroi non avevano vergogna nel piangere, perché era un modo per prendere coscienza della propria fragilità e ripartire da qui per compiere gesta epiche. Poi, però, Platone, nella Repubblica, mise un freno ai singhiozzi, asserendo che il vero patriota ha bisogno di coraggio e di ciglio asciutto. E «nel V secolo greco – scrive Nucci – ormai, chi piangeva non poteva essere considerato un uomo».

Ovviamente la «valle lacrimarum» riaffiorò con altri mezzi e tutta la mistica medievale ci racconta di gemiti di contrizione, sia maschili che femminili. «Prendiamo il pianto di Sant’Ignazio di Loyola — suggerisce l’antropologo Franco La Cecla —: è fatto di pentimento, afflizione per il peccato.

Una via alla redenzione. Diverso dal pianto puritano, di matrice anglosassone, che è invece sete di onestà, trasparenza», un fanatismo dell’autenticità. E così, nel ‘900, le lacrime private sono diventate in qualche modo teatro aperto, una sorta di marchio di integrità.

Ci si ricongiunge così al secolo scorso, dominato da mezzi di comunicazione sempre più raffinati e pervasivi. Nel 1991 il generale Norman Schwarzkopf, protagonista dell’operazione Desert Storm nella Guerra del Golfo, scoppiò a piangere in favore di telecamera. Subito i giornali presero a ipotizzare un suo imminente impegno politico, associando le lacrime a una volontà di apparire irreprensibile. E forse non è un caso che tre anni dopo, nel 1994, come ricorda Tom Lutz in Storia delle Lacrime (Feltrinelli), la rivista Time pubblicasse una foto dell’ex presidente George Bush, colto nel pianto mentre era nel suo studio. Erano anche gli anni in cui il critico americano Robert Hughes pubblicava il celebre saggio La cultura del piagnisteo (tradotto da Adelphi) in cui affermava, in sostanza, che siamo tutti figli di quel vittimismo (piagnone) di matrice puritana che finisce per premiare il politicamente corretto in nome di una eguaglianza utopistica nonché distorta.

Ma, ragiona l’antropologo, anche grazie alla televisione, il pianto ha potuto diventare una specie di confessione seguita da assoluzione collettiva. E forse c’è un legame sottile tra questa rigenerazione mediante le lacrime e quella che, in un bel libro tradotto da Einaudi dal titolo Il pudore , Monique Selz definisce la «dittatura della trasparenza», la frenesia del gioco allo scoperto, del mostrarsi per intero sacrificandosi sull’altare di una presunta limpidezza scambiata sovente per incorruttibilità.

«E di sicuro – afferma La Cecla – ancora oggi si tende a identificare uno che piange in pubblico come onesto e buono. Ma, sorpresa!, ecco che qui tornano le differenze tra uomini e donne: queste ultime sono più abituate a piangere, a loro è stato concesso nel corso dei secoli, dunque conoscono bene tutte le sfumature teatrali del singhiozzo. È proprio per questo che non si fidano della lacrima pubblica. Cosa alla quale, invece, gli uomini spesso finiscono per credere, perché meno attrezzati a comprenderne le dinamiche».

La conclusione? Noi donne non ci caschiamo. E così si spiegano sia la palpebra secca di politiche di primo piano come Hillary Clinton, sia l’aumento esponenziale di maschi gementi. Un’eccezione però si può fare: quelle di Buffon e di Conte con ogni probabilità sono state lacrime vere. A chiunque avesse lottato fino all’ultimo rigore sarebbe venuto da piangere nel vedere l’allegro sfottò di Pellé a Neuer, subito punito dal portiere tedesco.

vivicentro.it/cultura –  corrieredellasera / Piangere in pubblico (Roberta Scorranese)

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