Il nuovo libro di Saviano: La paranza dei bambini. Anteprima con: adda murì mammà

Anteprima con: adda murì mammà La Paranza dei bambini è il nuovo libro di Roberto...

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Anteprima con: adda murì mammà

La Paranza dei bambini è il nuovo libro di Roberto Saviano – edito da Feltrinelli – che uscirà a dicembre 2016, nel periodo di Natale, e che ha per protagonisti i giovanissimi. In esso Saviano si chiede: cos’è che davvero conta? La risposta è comandare e avere soldi.

La Paranza dei bambini racconta di ragazzi, poco piu che bambini, feroci e pronti a tutto: il nuovo potere che governa il centro di Napoli. Uccidono e vengono uccisi per denaro, identità, potere.

Grande l’attesa per questo nuovo romanzo di Roberto Saviano, la Repubblica ha diffuso un estratto del libro, che è disponibile al termine dell’articolo. Un’anticipazione disponibile anche in pdf del nuovo libro di Roberto Saviano, in particolare il capitolo intitolato “Adda muri’ mammà”.

Il nuovo libro di Saviano ha per protagonista i giovanissimi racconta di ragazzi, poco piu che bambini, feroci e pronti a tutto: il nuovo potere che governa il centro di Napoli. Uccidono e vengono uccisi per denaro, identità, potere. Quello che Roberto Saviano si chiede nel suo nuovo libro è cos’è che davvero conta? La risposta è comandare e avere soldi. Questo è e raccontato nelle pagine della nuovo romanzo di Saviano dal titolo La paranza dei bambini, libro che descrive il mondo esattamente com’è oggi.

Adda muri’ mammà è un capitolo de La paranza dei bambini. Ecco una parte dell’estratto in anteprima disponibile in pdf sul sito Repubblica.it

La paranza dei bambini: adda murì mammà ROBERTO SAVIANO

Giovanissimi, veloci, violenti. Sono i protagonisti dell’atteso romanzo di Roberto Saviano che uscirà per Natale. Eccone un assaggio in esclusiva

È il 31 maggio 2013, Anna chiama Antonella poco prima di mezzanotte per dirle di non uscire di casa. La conversazione si interrompe per il rumore fortissimo di spari in strada, nei pressi di via Sant’Arcangelo a Baiano, pieno centro storico di Napoli, zona universitaria, a due passi da via dei Tribunali e dai luoghi del turismo. A poche centinaia di metri da lì hanno sfilato gli abiti di Dolce e Gabbana.

Il mattino dopo, prestissimo, alle 5.40 Antonella sente al telefono un’altra donna, Angela, che abita a vico Carbonari, prolungamento di via Sant’Arcangelo a Baiano. Anche Angela ha sentito gli spari. Parlano proprio di quello:

Angela: Comunque mi sono scioccata stasera.
Antonella: Qui mi sembra il Far West. Mi hanno detto che stanno tutti(incomprensibile), pure i bimbi… pure…
Angela: Ma è una paranza nuova?

Antonella spiega ad Angela che a Forcella c’è una nuova paranza dove ci sono “pure i bimbi”.

Queste intercettazioni telefoniche sono presenti nelle oltre 1.600 pagine dell’ordinanza cautelare emessa dal Gip di Napoli, nell’ambito dell’inchiesta sulla “Paranza dei bambini” (condotta dai pm della Dda Henry John Woodcock e Francesco De Falco), che ha portato a 43 condanne, quasi tutte nei confronti di giovanissimi.

Nel gergo camorristico “paranza” significa gruppo criminale, ma il termine ha origini marinaresche e indica le piccole imbarcazioni per la pesca che, in coppia, tirano le reti nei fondali bassi, dove si pescano soprattutto pesci piccoli per la frittura di paranza. L’espressione “paranza dei bambini” indica la batteria di fuoco, ma restituisce anche con una certa fedeltà l’immagine di pesci talmente piccoli da poter essere cucinati solo fritti: piscitiell’, proprio come questi ragazzini. 1987, 1989, 1991, 1993, 1985, 1988, 1995, 1994: queste le date di nascita dei ragazzi della paranza. “Ciro Ciro”, “‘o Rerill”, “‘o Pop”, “‘o Russ”, “‘Nzalatella”, “Recchiolone” i loro soprannomi. Studiare la paranza dei bambini significa tratteggiare la nuova forma che la camorra napoletana ha assunto: barbe lunghe e corpi completamente tatuati, ma giovanissimi.

Queste storie, tra doglie, sforzi, lacrime e muscolose spinte di rabbia, diventeranno il mio prossimo romanzo (questa volta di fiction e non più non-fiction). Si intitolerà La paranza dei bambini e uscirà a dicembre per Feltrinelli. Qui, oggi, trovate una anticipazione il cui titolo è Adda murì mammà, espressione che a Napoli i ragazzi usano di continuo per giurare che ciò che stanno dicendo è vero. Espressione che descrive meglio di molte altre lo spirito della paranza, pronta al sacrificio estremo – perdere la propria madre – per affrontare ciò che nel resto d’Italia sarebbe impensabile. Pronta a perdere tutto, libertà, affetti, vita. Per comandare.


Adda murì mammà

“Dobbiamo costruire una paranza tutta nostra. Nun amma appartenè a nisciuno, sule a nuje. Non dobbiamo stare sotto a niente.”
Tutti guardavano Nicolas in silenzio. Aspettavano di capire come avrebbero potuto emanciparsi senza mezzi, senza un cazzo. Nemmeno votare potevano, erano in pochi ad aver compiuto diciott’anni. Patenti manco a parlarne, sì e no qualche patentino per i 125.
Bambini li chiamavano e bambini erano veramente. E come chi ancora non ha iniziato a vivere, non avevano paura di niente, consideravano i vecchi già morti, già seppelliti, già finiti. L’unica arma che avevano era la ferinità che i cuccioli d’uomo ancora conservano. Animaletti che agiscono d’istinto. Mostrano i denti e ringhiano, tanto basta a far cacare sotto chi gli sta di fronte.
Diventare mostruosi, solo così chi ancora incuteva timore e rispetto li avrebbe presi in considerazione. Bambini sì, ma con le palle. Creare scompiglio e regnare su quello: disordine e caos per un regno senza coordinate.
“Se creren’ ca simm’ creature, ma nuje tenimm’ chest’… e tenimm’ pur’ chest’.”
E con la mano destra Nicolas prese la pistola che teneva nei pantaloni. Uncinò il ponticello con l’indice e iniziò a far roteare l’arma come se non pesasse niente mentre con la sinistra indicava il pacco, il cazzo, le palle. Tenimm’ chest’ e chest’: armi e palle, questo era il concetto.
“Nicolas…” Agostino lo interruppe, qualcuno doveva farlo, Nicolas se l’aspettava. L’aspettava come il bacio che avrebbe fatto identificare Cristo ai soldati. Aveva bisogno che qualcuno si prendesse il dubbio e la colpa di pensare: un capro espiatorio, perché fosse chiaro che non c’era scelta, che non si poteva decidere se essere dentro o fuori. La paranza doveva respirare all’unisono e il respiro sul quale tutti dovevano calibrare la propria necessità di ossigeno era il suo.
“…Nico’, ma non s’è mai visto che facciamo da soli una paranza, così, da subito. Adda murì mammà, Nico’, dobbiamo chiedere il permesso. Proprio mo’ che alla Sanità la gente pensa ca nun ce sta cchiù nisciun’, se ci sappiamo fare ci danno una piazza, fatichiamo per loro.”
“Agosti’, è gente come a te che non voglio, la gente come te se ne deve andare mo’ mo’…”
“Nico’, forse non mi sono spiegato, sto solo dicendo che…”
“Aggio capit’ buon’, Austi’, staje parlann’ malament’.”
Nicolas si avvicinò, tirò su col naso e gli sputò in faccia. Agostino non era un cacasotto e provò a reagire, ma mentre stava caricando la testa in direzione del setto nasale, Nicolas lo prevenne e si scostò. Si guardarono negli occhi. E poi basta, finito il teatro. A quel punto Nicolas continuò.
“Agosti’, io non voglio gente con la paura, la paura non deve venire nemmeno in mente. Se ti viene il dubbio, allora per me non sei più buono.”
Agostino sapeva di aver detto ciò che tutti temevano, non era l’unico a pensare che bisognasse trovare un’interlocuzione con i vecchi capi e quella sputata in faccia più che un’umiliazione fu un avvertimento. Un avvertimento per tutti.
“Mò te ne devi andare, tu nella paranza non ci puoi stare più.”
“Siete solo una vrancata di merdilli,” disse Agostino, paonazzo.
Enzuccio ‘o Rentill’si intromise, e cercò di placarlo.
“Austi’, va vattenne, che ti fai male…”
Agostino non aveva mai tradito eppure, come tutti i Giuda, fu strumento utile per accelerare il compimento di un destino: prima di uscire dalla stanza regalò inconsapevolmente a Nicolas ciò di cui aveva bisogno per compattare la paranza.
“E vuje vulesseve fa ‘a paranz’ cù tre curtiell’e doje scacciacani?”
“Cù ‘sti tre curtiell’t’arapimm’ sano sano.” Esplose Nicolas.
Agostino alzò il dito medio e lo fece roteare in faccia a quelli che un momento prima sentiva sangue del suo sangue. A Nicolas dispiaceva lasciarlo andare: non si butta via così una persona di cui conosci ogni giorno, ogni fratcucin’, ogni zio. Agostino era con lui allo stadio, sempre, al San Paolo e in trasferta. Un brò lo devi tenere vicino, ma era andata così e cacciarlo serviva. Serviva una spugna che assorbisse tutte le paure del gruppo. Appena Agostino ebbe sbattuta la porta, Nicolas continuò.
“Frate’, ‘o cacasott’ ten’ ragione… Non la possiamo fare la paranza con tre coltelli da cucina e due scacciacani.”
E quelli che un attimo prima erano pronti a combattere con le poche lame e i ferri vecchi che avevano, perché Nicolas li aveva benedetti, dopo l’autorizzazione al dubbio confermarono tutti la delusione: sognavano santebarbare ed erano ridotti a maneggiare giocattoli che nascondevano in cameretta.
“La soluzione ce l’ho,” disse Nicolas, “o m’accireno oppure torno a casa cù ‘n arsenale. E se questo succede, qua adda cagnà tutte cose: con le armi arrivano pure le regole, perché adda murì mammà, senza regole simm’ sule piscitiell’ ‘e vrachetta.”
“Le teniamo le regole, Nico’, siamo tutti fratelli.”
“I fratelli senza giuramento non sono niente. E i giuramenti si fanno sulle cose che contano. “L’avete visto Il camorrista, no? Quando ‘o Prufessor’ fa il giuramento in carcere. Veritavell’, sta ‘ncopp a YouTube: noi dobbiamo essere così, una cosa sola. Ci dobbiamo battezzare coi ferri e colle catene. Amma essere sentinelle di omertà. È tropp’ bell guagliu’, veritavell’. Il pane, che se uno tradisce diventa piombo e il vino ca addivent’ veleno. E poi ci deve uscire il sangue, amma ammiscà ‘e sang’ nuoste e non dobbiamo tenere paura di niente.”
Mentre parlava di valori e giuramenti, Nicolas aveva in mente una cosa sola, una cosa che gli creava disagio e gli svuotava l’addome. Le palle, se davvero ce le aveva ancora, dopo quella storia, una storia di niente, se le poteva appendere al collo come cravatta al prossimo sposalizio.
Faceva caldo e c’era la partita, giocava l’Italia, ma lui tifava contro, perché lui e i compagni suoi non si sentivano italiani e per la partita avevano strafottenza. Tenevano una cosa da fare e pure urgente. Erano in sei su tre scooter. Il suo lo guidava Enzuccio ‘o Rentill’, gli altri due sfrecciavano dietro. Dal Moiariello era una strada sola in discesa. Vicoli stretti stretti – “il presepe”, lo chiama la gente che ci vive.
Se passi di là fai prima e per piazza Bellini, marciapiede marciapiede, eviti traffico e sensi unici, ci metti un attimo.
A piazza Bellini c’era il contatto con l’Arcangelo e Nicolas doveva fare presto. È vero, si sentiva un padreterno, ma quel contatto gli serviva. E quella non è gente che aspetta. Dieci minuti e doveva stare là.
L’ultimo tratto di via Foria, prima di arrivare al Museo, i tre scooter lo percorsero su marciapiedi larghie illuminati, zigzagando a clacson spiegati. Chi li guida a Napoli è un Minotauro: metà uomo e metà ruote. Si sorpassa ovunque, non c’è sbarramento o isola pedonale. Per loro valgono le regole dei pedoni e nessun’altra. Questa volta avrebbero potuto anche andare per strada, perché in giro non c’era anima viva e quei pochi che non si erano organizzati per la partita stavano fermi davanti agli schermi che a Napoli si trovano a ogni pizzo. Di tanto in tanto, se sentivano esultare, fermavano gli scooter e chiedevano il risultato. L’Italia era in vantaggio. Nicolas imprecò.
Via Costantinopoli la imboccarono contromano. Salirono sui marciapiedi che questa volta erano stretti e bui e qui c’era più gente. Ragazzi, per lo più universitari e qualche turista. Stavano andando anche loro, ma con maggiore calma, a piazza Bellini, a Port’Alba, a piazza Dante, dove c’erano locali con televisori in strada. Andavano troppo veloci e non videro due passeggini fermi sul marciapiede, accanto adulti seduti al tavolino di un bar.
Il primo scooter a frenare non ci provò nemmeno, il manico del passeggino più esterno arpionò lo specchietto dello scooter e il passeggino iniziò a muoversi veloce finché non si staccò, cadde di lato, sembrava come planare sul ghiaccio. Si fermò solo quando arrivò al muro: l’impatto fece un rumore sordo. Un rumore di sangue, di carne bianca e pannolini. Di capelli appena cresciuti, disordinati. Un rumore di ninnananne e notti insonni. Dopo un attimo si sentì il bambino piangere e la madre urlare. Non si era fatto niente, solo spavento. Il padre invece era impietrito, immobile. In piedi, guardava i ragazzi che nel frattempo avevano parcheggiato gli scooter e se ne stavano andando via con calma. Non si erano fermati. E nemmeno erano fuggiti in preda al panico. No. Avevano parcheggiato e si erano allontanati a piedi, come se tutto ciò che era accaduto rientrasse nella normale vita di quel territorio, che appartiene a loro e a nessun altro. Calpestare, urtare, correre. Veloci, strafottenti, maleducati, violenti. Così è e non c’è altro modo di essere. Nicolas però sentiva il cuore pompare sangue all’impazzata. Non era cazzimma la sua, ma calcolo: quell’incidente non doveva modificare il loro percorso. C’erano due macchine della polizia – da un lato e dall’altro di via Costantinopoli – ferme proprio dove i ragazzi avevano parcheggiato. I poliziotti, quattro in tutto, stavano ascoltando la partita alla radio e non si erano accorti di nulla. Erano a pochi metri dall’incidente ma quelle urla non li avevano strappati alle loro macchine. Cosa avranno pensato? A Napoli si urla sempre, a Napoli urla chiunque. Oppure: meglio stare alla larga, siamo pochi e qui non abbiamo alcuna autorità.
Nicolas non diceva niente e mentre con lo sguardo cercava il suo contatto, pensava che avevano rischiato di farsi male, che a quel passeggino un calcio dovevano dare e non portarselo appresso per dieci metri. A Napoli tutto era loro e i marciapiedi servivano, la gente questo lo doveva capire.
Eccolo il suo contatto con don Vittorio Grimaldi, cappello in testa e spinello in bocca. Si avvicinava lento, non si tolse il cappello e non sputò lo spinello: trattò Nicolas come il ragazzino che era e non come il capo che fantasticava di essere.
“L’Arcangelo ha deciso che puoi andarlo a pregare. Ma per entrare nella cappella bisogna seguire bene le indicazioni.”
Indicazioni in codice che Nicolas seppe decifrare. Il boss l’avrebbe ricevuto a casa sua, ma che non gli venisse in mente di passare dall’entrata principale perché lui, don Vittorio, era agli arresti domiciliari e non poteva incontrare nessuno. Le telecamere dei carabinieri non si vedevano ma c’erano, ficcate nel cemento, da qualche parte. Ma non erano quelle che Nicolas doveva temere, piuttosto gli occhi dei Colella. Il contatto di piazza Bellini fu chiaro: “Se ti vedono i Colella, tu diventi un Grimaldi. E le botte che buttano su di noi, le buttano pure su di te. Punto. L’Arcangelo vuole che stai avvisato, poi fai tu”.
La verità era un’altra: Nicolas e il suo gruppo erano delle teste di cazzo e i Grimaldi non volevano che, per colpa loro, i sospetti di inquirenti e rivali si concentrassero sull’Arcangelo che era già pieno di guai.

adda murì mammà ROBERTO SAVIANOL’appartamento di don Vittorio, detto l’Arcangelo, era a San Giovanni a Teduccio. In via Sorrento, in un palazzone ocra con ferri alle finestre. San Giovanni ha le dimensioni di un paese e venticinquemila abitanti, ma è un quartiere di Napoli, un quartiere della periferia orientale. Una strada con case basse, paesane e qualche parallelepipedo. È tutto giallino a San Giovanni, pure il mare.

Nicolas arrivò in scooter, tanto non era famoso come avrebbe voluto e lì, lontano da casa sua, nessuno dei guaglioni di Sistema lo conosceva. Di nome forse, ma la sua faccia poteva passare inosservata. Vedendolo, avrebbero pensato che era lì per comprare del fumo, e infatti si accostò col motorino ad alcuni ragazzi e subito fu accontentato:
“Quant’ ‘e ave’?”.
“Cient’ eur’.”
“Azz’, buon’. Ramm’ ‘e sord’.”
Qualche minuto dopo il fumo era sotto il suo culo, sotto il sellino. Fece un giro e poi parcheggiò. Mise un lucchetto vistoso e andò a passo lento verso la casa dell’Arcangelo. I suoi movimenti erano chiari, decisi. Niente mani in tasca, gli prudeva la testa, stava sudando, ma lasciò perdere. Non s’è mai visto un capo grattarsi in un momento solenne. Citofonò all’appartamento sotto quello di don Vittorio, come da indicazioni. Risposero. Pronunciò il suo nome, ne scandì ogni sillaba.
“Professore’, sono Nicolas Fiorillo, aprite?”
“Aperto?”
“No!”
In realtà era aperto ma voleva prendere tempo.
“Spingi forte che si apre.”
“Sì, sì. Ora si è aperto.”
Rita Cicatello era una vecchia professoressa in pensione che dava ripetizioni private a prezzi che qualcuno definirebbe sociali. Andavano da lei tutti gli allievi dei professori amici suoi. Se andavano a ripetizione da lei e da suo marito, venivano promossi, altrimenti piovevano i debiti e poi da lei ci dovevano andare lo stesso, ma d’estate.
Nicolas raggiunse il pianerottolo della professoressa. Entrò con tutta calma, come uno studente che non avesse voglia di sottoporsi all’ennesimo supplizio; in realtà voleva essere certo che la telecamera piazzata lì dai carabinieri riprendesse tutto. Come un occhio umano, la considerava capace di battere le palpebre e quindi ogni suo gesto doveva essere lento, che restasse impresso. La telecamera dei carabinieri, che sarebbe servita anche ai Colella, doveva vedere questo: Nicolas Fiorillo che entrava dalla professoressa Cicatello. E basta.
La signora aprì la porta. Aveva un mantesino che la proteggeva dagli schizzi di salsa e olio. Nella piccola casa c’erano tanti ragazzi, maschi e femmine, in tutto una decina, seduti alla stessa tavola da pranzo rotonda, con i libri di testo aperti, ma con la testa nell’iPhone. A loro piaceva la professoressa Cicatello perché non faceva come tutte le altre, che prima di iniziare la lezione sequestravano i cellulari, costringendoli poi a inventare scuse fantasiose – mio nonno è in sala operatoria, mia madre se non rispondo dopo dieci minuti chiama la polizia – per poterli guardare, ché magari era arrivato un messaggio su WhatsApp o qualche like su Facebook. La professoressa glieli lasciava in mano e la lezione nemmeno la faceva, se li teneva in casa davanti a un tablet – regalo del figlio per l’ultimo Natale – collegato a un piccolo amplificatore da cui usciva la voce di lei che parlava di Manzoni, del Risorgimento, di Dante. Tutto dipendeva da cosa dovessero studiare i ragazzi; la professoressa Cicatello, nei tempi morti, preregistrava le lezioni e poi si limitava a urlare di tanto in tanto: “Basta cù ‘sti telefonini e ascoltate la lezione”. Nel frattempo cucinava, riordinava casa, faceva lunghe telefonate da un vecchio telefono fisso. Tornava per correggere i compiti di italiano e geografia, mentre suo marito correggeva quelli di matematica.
Nicolas entrò, biascicò un saluto generale, i ragazzi nemmeno lo degnarono di uno sguardo. Aprì la porta di vetro e la varcò. I ragazzi vedevano spesso entrare e uscire gente che spariva, dopo un rapido saluto, dietro la porta della cucina. La vita oltre quella porta era loro sconosciuta e, siccome il bagno era sul lato opposto, della casa della professoressa conoscevano solo la stanza del tablet e il cesso. Sul resto non facevano domande, non era il caso di essere curiosi.
Nella stanza del tablet c’era anche il marito, sempre dinanzi a un televisore e sempre con una coperta sulle ginocchia. Anche d’estate. I ragazzi lo raggiungevano sulla poltrona per portargli i compiti di matematica. Lui con una penna rossa che teneva nel taschino della camicia li correggeva, punendo la loro ignoranza. Bofonchiò verso Nicolas qualcosa che doveva somigliare a un “Buongiorno”.
Alla fine della cucina c’era una scaletta. La professoressa senza fiatare indicò verso l’alto. Una piccola e artigianale opera in muratura aveva realizzato un foro che collegava il piano di sotto al piano di sopra. Così, semplicemente, chi non poteva raggiungere don Vittorio dalla porta principale, andava dalla professoressa. Arrivato all’ultimo piolo, Nicolas batté il pugno un paio di volte sulla botola. Era lui stesso, don Vittorio, che quando sentiva i colpi si chinava lasciando che dalla sua bocca uscisse un gorgoglio di fatica che veniva dritto dalla spina dorsale. Nicolas era emozionato, don Vittorio non l’aveva mai incontrato di persona, ma visto solo sui giornali delle capuzzelle – così si chiamano in gergo quei giornali locali che pubblicano tutti i giorni le foto segnaletiche dei camorristi della zona. Quelli arrestati, quelli condannati, i latitanti e i morti uccisi. Vederlo da vicino non gli fece l’effetto che aveva creduto. Era più vecchio rispetto alla foto che conosceva, che risaliva al primo arresto. L’aveva visto poi al processo, ma da lontano. Don Vittorio lo lasciò entrare e con lo stesso gorgoglio di schiena richiuse la botola. Non gli strinse la mano, ma gli fece strada.
“Vieni, vieni…” disse solo, entrando nella sala da pranzo dove c’era un enorme tavolo d’ebano che in quella geometria assurda riusciva a perdere tutta la sua cupa eleganza per diventare un monolite vistoso e pacchiano. Don Vittorio si sedette alla destra del capotavola. La casa era piena di vetrinette con dentro ceramiche d’ogni tipo. Le porcellane di Capodimonte dovevano essere la passione della moglie di don Vittorio, di cui però in casa non c’era traccia. La dama col cane, il cacciatore, lo zampognaro: i classici di sempre. Gli occhi di Nicolas rimbalzavano da una parete all’altra, tutto voleva memorizzare; voleva vedere come campava l’Arcangelo e quello che vedeva non gli piaceva. Non sapeva dire esattamente perché provasse disagio, ma certo non gli sembrava la casa di un capo. C’era qualcosa che non tornava: non poteva essere, la sua missione in quel fortino, cosa tanto banale, scontata, facile. Un televisore a schermo piatto circondato da una cornice color legno e due persone con indosso pantaloncini del Napoli: in casa sembrava esserci solo questo. Non salutarono Nicolas, aspettando un cenno di don Vittorio che, presa posizione, indice e medio uniti come a scacciare tafani, fece loro un segno che inequivocabilmente interpretarono come “jatevenne”. I due si spostarono e passò poco che, da un’altra stanza, si sentì arrivare la voce gracchiante di un attore comico – doveva esserci un altro televisore – e poi risate.
“Spogliati” ordinò l’Arcangelo.

(Fine della prima parte – La seconda e ultima sarà pubblicata domenica prossima, 7 agosto)

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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 2016

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vivicentro/ Il nuovo libro di Saviano: La paranza dei bambini.
repubblica/ La paranza dei bambini: adda murì mammà ROBERTO SAVIANO

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