Il giardino delle vittime senza nome

Ad Amatrice c’è un posto che riassume il dramma: il “giardino dei senza nome”. Qui...

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Ad Amatrice c’è un posto che riassume il dramma: il “giardino dei senza nome”. Qui i parenti delle vittime vengono per tentare di riconoscere i propri cari. Un obitorio a cielo aperto dove decine di morti ancora non hanno un’identità. Il rischio è che non ci siano più neanche i loro parenti. Secondo i soccorritori in molti potrebbero restare senza un nome. Intanto ci sono state nuove scosse nelle zone colpite dal terremoto in Italia Centrale mentre si aggrava il conto delle vittime. L’ultimo bilancio parla di oltre 250 vite spezzate. Persone di tutte le età, spesso nonni e bambini accomunati da un tragico destino. Abbiamo ricostruito molte di queste vite sepolte dalle macerie perché descrivono il nostro Paese.

Nel “giardino dei senza nome”. Qui i parenti riconoscono le salme PAOLO FESTUCCIA*

Lo chiamano già il giardino dei senza nome. Un tempo ospitava gli anziani di Amatrice, oggi le vittime del terremoto. Alcune, la maggior parte di queste secondo i racconti, sono ancora senza identità. Senza un nome né un cognome. Allineate a pochi passi da quello che un tempo era il corso del passeggio centrale della cittadina montana da dove si scorgono poco più avanti le strutture attrezzate del primo campo di pronto intervento.

Le tende una accanto all’altra sono in tutto meno di venti. Al loro interno ci sono tra i dodici e i diciotto corpi. E lì che i sopravvissuti al sisma del 24 mattina si infilano. Anche per loro è l’ultima speranza: di vita o di morte che sia. La polizia scientifica ormai da giorni fa visionare foto e documenti (per chi li aveva, addosso, in verità pochissimi) al computer. È il primo dolorosissimo passaggio del riconoscimento dei corpi.

I cadaveri sono uno accanto all’altro. Sono decine che aspettano ancora un nome e cognome. Per quelle identificate c’è la restituzione delle salme, per gli altri il freddo delle celle frigorifere. L’ultimo atto è il certificato di avvenuto decesso. La procedura, del resto, è identica per tutti: un numero, una foto, i rilievi dattiloscopici e i prelievi del dna. Tutto registrato, archiviato, in attesa che «la ricognizione sul cadavere» fatta sulla vittima «possa dare esito positivo». Fuori e dentro le tende resiste solo la disperazione: sia per chi ritrova un figlio o un genitore morto sia per chi spera, a quarantotto ore dal terremoto, di trovarlo ancora in vita.

La fila è incessante, continua ma i corpi che reclamano un nome sono ancora molti. Tanti, troppi e forse non lo troveranno mai. «Almeno i due terzi di quelli che abbiamo qui…», si sbilanciano i soccorritori. Solo una cinquantina – ma il numero potrebbe essere destinato a cambiare col passare del tempo – in queste ultime ore avevano già un’identità certa. Ventinove quelli censiti la sera del 24 agosto dal consulente della procura Giovanna Scanzani. Gli altri aspettano ancora.

Tanti esempi, con storie diverse ma epiloghi analoghi. Ci sono volti ignoti che nessuno cerca perché nella tragedia della notte maledetta chi poteva o avrebbe potuto cercarli è morto insieme a loro. Oppure ci sono i cadaveri di uomini e donne senza parenti che nessuno conosce in città, e ancora corpi menomati che al primo riscontro fotografico nessuno ha saputo identificare. È il caso di un corpo decapitato o quello di altri straziati nel volto dal peso dei calcinacci. Ma tra tutti i casi, giovedì sera scorsa, allineato come gli altri, ce ne era uno che più degli altri però ha segnato profondamente i confini della tragedia di Amatrice. Quello di un bimbo, piccolissimo, di pochissimi mesi, come del resto è accaduto con Riccardo di Accumoli, anche lui di pochi mesi, che nessuno ha cercato o chiamato. Avvolto come le altre salme nel silenzio di una cerata argentata, in attesa di un nome e di una lapide da scolpire sul loculo.

Forse, raccontano le voci, anche i suoi genitori sono morti con lui. Insomma, ci vorrà del tempo non solo per ripartire ma anche per lenire il male delle ferite profonde lasciate dal terremoto. Un tempo che corre veloce e che non giova – come qualcuno ha lasciato intuire – al mantenimento in quelle strutture dei corpi martoriati. Di loro e del loro destino si è dibattuto a lungo. Si è discusso sia del luogo dove alloggiarli che del metodo per identificarli: se tenerli ad Amatrice o trasferirli altrove. In un primo momento si era pensato di identificare i cadaveri in loco per poi mettere in atto i trasferimenti, a cominciare dai non identificati. Tant’è che il Policlinico Umberto I di Roma aveva messo a disposizione 150 posti, mentre i restanti sarebbero stati ospitati tra gli obitori di Tor Vergata e quelli del Gemelli. Poi, il dietrofront di ieri mattina: tutti nelle tende climatizzate. E lì resteranno fin quando non saranno riconosciuti. Solo allora potranno ottenere il certificato necroscopico ed essere finalmente tumulati. Un’operazione lunga e difficile e necessaria perché, «senza identificazione – lasciano capire fonti della Procura – la restituzione della salma non arriva…».

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