Via dei Georgofili Firenze: una strage da non dimenticare

In via dei Georgofili a Firenze, una Fiat Fiorino imbottita di esplosivo venne fatta esplodere nei pressi della torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili che fu ricostruita nel 1996.

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In via dei Georgofili a Firenze, una Fiat Fiorino imbottita di esplosivo venne fatta esplodere nei pressi della torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili che fu ricostruita nel 1996.

Fu un attentato dinamitardo di origine mafiosa e provocò la morte di cinque persone e anche gli Uffizi subirono dei danni.

L’attentato venne fatto risalire alla reazione da parte del clan dei corleonesi di Totò Riina all’applicazione dell’articolo 41 bis che prevede carcere duro e isolamento per i mafiosi.

Via dei Georgofili Firenze: cosa accadde

Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 Cosa nostra pianificò e mise in atto un attentato terroristico a Firenze, in via dei Georgofili, facendo esplodere un’autobomba e sconvolgendo il centro storico della città.

L’esplosione distrusse la Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili e provocò l’uccisione di cinque persone:

  1. la custode  dell’Accademia Angela Fiume (36 anni),
  2. il marito Fabrizio Nencioni (39 anni) e le loro figlie:
  3. Nadia Nencioni (9 anni),
  4. Caterina Nencioni (50 giorni di vita).

Si incendiò inoltre un edificio della via e tra le fiamme morì lo studente Dario Capolicchio (22) mentre una quarantina di persone furono ferite.

Molti edifici della zona come

  • Palazzo Vecchio,
  • la Chiesa di S. Stefano e Cecilia
  • il complesso artistico monumentale della Galleria degli Uffizi

subirono gravi danni, inoltre furono distrutti dipinti di grande valore e il 25% delle opere presenti in Galleria subì danni.

Questo vile attentato è inserito nella scia degli altri attentati del ’92-’93 che provocarono la morte di 21 persone (tra cui i giudici Falcone e Borsellino) e gravi danni al patrimonio artistico.

I processi hanno accertato che ad ispirarli era stata l’avvenuta formale deliberazione di «una sorta di stato di guerra contro l’Italia» da attuarsi utilizzando una precisa strategia di tipo terroristico ed eversivo, che andava oltre i consueti metodi e le consuete finalità delle varie forme di criminalità organizzata.

Dopo i fatti del 1992 lo Stato aveva reagito elaborando normative penitenziarie di rigore a carico degli esponenti di mafia (il noto art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario) e normative di favore per quegli esponenti della criminalità organizzata che decidevano di collaborare con gli organi di polizia o giudiziari.

Si trattò effettivamente di una svolta nell’atteggiamento statale, che servì a intaccare la «presunzione di onnipotenza e di libertà» dei capi di mafia.

Gli esponenti mafiosi così, indotti da un trafficante di opere d’arte, ricorsero a nuove forme di attentato contro il patrimonio artistico.

Il loro pensiero era che:

«ucciso un giudice questi viene sostituito, ucciso un poliziotto avviene la stessa cosa, ma distrutta la torre di Pisa veniva distrutta una cosa insostituibile con incalcolabili danni per lo Stato».

E proprio in questa ottica e a conferma di un disegno criminoso che voleva condizionare il funzionamento degli istituti democratici e la vita civile del Paese, seguendo le medesime modalità esecutive, la mafia fece seguire alla strage di via dei Georgofili,

  • quella al Padiglione di Arte Contemporanea di via Palestro a Milano, il 27 luglio 1993,
  • il giorno successivo, a distanza di cinque minuti tra loro, gli attentati ai danni della Basilica di San Giovanni e della chiesa di San Giorgio a Velabro a Roma.

Le indagini ricostruirono l’esecuzione della strage di via dei Georgofili in base alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, in particolare Spatuzza che iniziò a collaborare nel 2008 dichiarando che la strage venne pianificata durante una riunione.

Alla stessa, oltre a lui stesso erano presenti:

  1. Barranca
  2. Giuliano
  3. Giuseppe Graviano,
  4. Matteo Messina Denaro
  5. Francesco Tagliavia (capo della Famiglia di Corso dei Mille),

i quali decisero l’obiettivo da colpire attraverso dépliant turistici.

Nonostante ciò, a Firenze, come nel resto d’Italia, la risposta fu compatta e unitaria, la condanna ferma e senza possibilità di appello.

Da allora i responsabili sono stati assicurati alla giustizia, e lo Stato ha onorato il sacrificio delle vittime, con il riconoscimento concesso a favore dei loro familiari, costituitisi parte civile nel processo, dal Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso di cui alla legge n. 512/99.

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