Il Presidente Mattarella “induce” alla tregua sulle infiammazioni istituzionali

Il Presidente Mattarella “induce” alla tregua sulle infiammazioni istituzionali – EDITORIALI Dietro il cessate il fuoco...

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Il Presidente Mattarella “induce” alla tregua sulle infiammazioni istituzionali – EDITORIALI

Dietro il cessate il fuoco sulle banche c’è la mano del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che “induce” alla tregua sulle infiammazioni istituzionali accettata anche da Visco e Renzi anche se, per l’ex premier, l’accettarla è stato un caro prezzo.

Per l’ex premier un pareggio a caro prezzo

Come nei migliori anni della guerra fredda, a due passi dalla «war room» i duellanti hanno preferito rinunciare alle armi non convenzionali. Il governatore della Banca d’Italia – che poche settimane fa Matteo Renzi avrebbe voluto rimuovere – davanti alla commissione d’inchiesta non ha affondato il colpo e subito dopo il leader del Pd lo ha «ringraziato molto». Una sequenza plastica ed eloquente: di fatto la commissione Banche si è conclusa. Con una tregua bilaterale.

Certo, il momentaneo disarmo è stato silenziosamente caldeggiato dal Capo dello Stato, che per mestiere è chiamato a decongestionare tutte le infiammazioni istituzionali che possono minare il sistema-Paese. Certo, i duellanti, pur avendo interessi diversi, sul breve coltivavano un obiettivo convergente: mettersi entrambi in sicurezza. Per il governatore Visco si trattava di portar fuori dal fuoco della delegittimazione un’istituzione delicata come la Banca d’Italia, oramai parte integrante del sistema europeo delle banche centrali.

Per il segretario del Pd si trattava di fugare il legittimo dubbio che lui stesso, ai tempi di Palazzo Chigi, si fosse mosso con un pregiudizio di eccessiva simpatia per Etruria, la banca di Arezzo.

Alla resa dei conti pareggio sì, ma a caro prezzo per Matteo Renzi. La commissione d’inchiesta ha consentito di far affiorare un sistema di vigilanza opaco, ma al tempo stesso ha finito per accendere i riflettori su un fenomeno a suo modo originale, che ha visto protagonista Maria Elena Boschi: il dispiegarsi di una vera e propria «diplomazia personale». Le audizioni hanno consentito di ricostruire una intensa striscia di incontri, in giro per l’Italia, dell’allora ministra delle Riforme, con banchieri privati e dell’istituto di vigilanza. Un attivismo che Boschi ha svolto di sua iniziativa, all’insaputa del ministro competente, quello dell’Economia. E lo ha fatto – raccontano i testimoni – per manifestare la sua «preoccupazione» per le sorti della banca della quale era vicepresidente suo padre. Nulla di illegale nell’attivismo di Maria Elena Boschi, ma nel passato conflitti di interesse più blandi avevano indotto diversi ministri a dimettersi.

Dunque, una commissione boomerang per il suo promotore? Oramai nella lettura delle mosse di Matteo Renzi osservatori e nemici fanno prevalere categorie psicologistiche. È possibile che nella determinazione del leader abbia pesato quella «trance agonistica» che nel passato lo ha portato a grandi vittorie. Sottovalutando che ogni tanto – e non solo nelle tragedie greche – la «ybris» (la iattanza), «chiama» la «nemesis», la vendetta degli dei. È più probabile che nella decisione di Renzi di insistere per una commissione che altrimenti non si sarebbe fatta, abbia pesato l’idea che attaccare per primo valga doppio. Che un pareggio è sempre meglio di una sconfitta.

Ma per i risparmiatori e per i cittadini quel che conta è la «resa» delle istituzioni parlamentari. Nel passato le commissioni di inchiesta, a cominciare dalla Sindona del 1980-82 – ma anche quelle analoghe svolte in altri Paesi, come gli Usa o la Gran Bretagna – hanno richiesto lunghe fasi istruttorie, di almeno due anni, prima di produrre risultati utili per la collettività. La commissione Casini sta già per chiudere i battenti dopo un lavoro intenso, ma durato soltanto dieci settimane. La relazione finale sarà scritta in una fase davvero particolare: a Camere sciolte, in quella «terra di nessuno» che sta tra una legislatura e l’altra. Ma la sentenza non resterà nei cassetti, sarà presentata all’opinione pubblica quando mancheranno poche settimane alle elezioni politiche di primavera. Una «tempestività» che difficilmente sarà sinonimo di serenità.

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