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Castellammare di Stabia

Se Ai Weiwei difende l’Occidente GIANNI RIOTTA*

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I principali siti internazionali accompagnavano ieri i titoli sulla débâcle delle statue classiche maldestramente coperte a Roma in occasione della storica visita del presidente iraniano Hassan Rohani con un trafiletto dedicato all’artista cinese Ai Weiwei, noto per lo stadio «Nido d’uccello» di Pechino.

  

Ai ha chiuso una sua mostra alla Fondazione Faurschou di Copenhagen in protesta per l’odiosa nuova legge, imposta dal governo di destra danese, che permette alla polizia di requisire ai profughi dalla Siria valuta, o gioielli di famiglia, di valore superiore a 10.000 corone (1340 euro) «per pagare spese di vitto e alloggio nel nostro Paese». 

In apparenza le due vicende hanno ben poco a che fare, una crassa gaffe italiana, subito rimpallata tra politici e burocrati, e il gesto di principio di un grande artista, che rinfaccia ai danesi una prassi dura e inutile contro un popolo di infelici. A ben guardare, però, le imprese del nuovo Daniele da Volterra, il pittore che censurò con goffi panni i nudi di Michelangelo ritenuti scandalosi, reincarnato in un funzionario zelante sconfessato dal ministro Franceschini, e la generosità di Ai Weiwei provocano una riflessione comune. I cliché conformisti sui «valori delle culture», se incapaci di guardare alla complessità che viviamo, portano fuori strada. Nel gesto di Ai non ricorrono «Valori della Cultura Orientale», visto che nel suo Paese l’artista è stato perseguitato, malmenato e arrestato dalla polizia. È vivo invece, nel suo chiudere la mostra danese, lo spirito umano universale di chi, consapevole che l’ondata dell’emigrazione è tragedia epocale, non pensa, come danesi, svizzeri, olandesi e, in Germania, il governo bavarese, che umiliare i profughi sequestrando collanine ricordo della nonna salvi i pingui bilanci Ue. 

La carenza di visione evoca gli imbarazzanti scatoloni da Ikea e imbruttisce la nostra immagine. La visita di Rohani ha rotto l’isolamento di Teheran, incoraggiato il leader moderato davanti ai populisti che pressano sul leader supremo Ali Khamenei perché blocchi le riforme, fruttato all’Italia posti di lavoro via i 20 miliardi in contratti industriali che, a stare all’entourage iraniano, potrebbero raddoppiare con l’indotto. 

È in corso una feroce guerra civile islamica tra sunniti e sciiti e lo stesso presidente americano Obama ha, dopo 37 anni di gelo Washington-Teheran, ha firmato un patto sul nucleare con gli ayatollah, pur di avere la repubblica iraniana non ostile nella lotta al terrorismo Isis. L’Italia, con i legami che risalgono all’Eni di Enrico Mattei prima del golpe 1953 contro il governo di Mossadeq, è considerata Paese amico. Non si tratta, sia chiaro, di condonare all’Iran il pessimo record sui diritti umani, ma, con realismo, di riconoscere che in quella zona del mondo quella è la regola, non l’eccezione. Bene dunque accogliere, in diplomazia, politica ed economia Rohani, come hanno fatto il presidente Mattarella, il premier Renzi e gli imprenditori, ma senza umiliarsi in servilismi non richiesti, né, pare, graditi, dal pragmatico presidente iraniano. 

Nel 1571, alla vigilia della battaglia di Lepanto, massimo scontro tra cristiani e musulmani nel Mediterraneo, i leader militari delle flotte nemiche, Don Giovanni d’Austria e Sufi Ali Pasha, con una moderazione di toni che appare oggi incredibile in piena «guerra di civiltà», si appellarono non all’odio, ma alle rispettive culture. Non chiesero ai marinai odio contro il nemico, ma passione per la propria tradizione. Nessuno – tranne le farneticazioni di Dabiq, la rivista di Isis – ha in animo di cancellare Roma e l’identità italiana. Potremmo però riuscirci bene da soli, per paura, interessi, cupidigia, opportunismo, mediocrità. Il burocrate dei grigi box intorno alle statue (che speriamo non venga troppo maltrattato, come i nostri tempi rancorosi già rivendicano, per la sua gaffe), i troppi che, ingigantendo oltre misura il caso hanno perso di vista la dimensione vera della missione Rohani, sono i Bouvard e Pécuchet del nostro tempo meschino, eroi di una stagione petulante senza neppure Flaubert a narrarla. È toccato dunque ad Ai Weiwei, artista asiatico perseguitato in patria, difendere, con fierezza, quella che ci ostiniamo a chiamare, senza esserne punto degni: «Cultura Occidentale». 

*lastampa

 
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