Paul Manafort, raggiunto da un ordine di arresto, si è dichiarato “non colpevole”: rischia fino a 80 anni. Gianni Riotta ne racconta il personaggio, da membro influente nella squadra del presidente a personaggio scomodo, spiegando che l’Fbi sta seguendo la difficile pista dei “dollari riciclati”.
Paul, il lobbista dai mille segreti amico di dittatori e presidenti
L’uomo chiave dell’inchiesta si muove tra paradisi fiscali e lusso. Saranno le sue parole a decidere se l’indagine colpirà più in alto
I
l dilemma divide la capitale. Se l’incriminazione di Manafort, ex lobbista repubblicano del presidente ucraino filo russo Yanukovich e poi capo della campagna elettorale di Trump, con il suo pupillo e socio Richard Gates, metterà nei guai solo la coppia di affaristi, poco male per il presidente, che già gongola via twitter «roba vecchia, indagate su Hillary Manigolda». L’accusa per Manafort è di quelle che, in America almeno, toglierebbero il fiato a tutti gli avventori del Milano, evasione fiscale, truffa, false dichiarazioni, associazione a delinquere, riciclaggio di valuta, consulenze illecite per Paesi stranieri, se va male il rinvio a giudizio del Grand Jury può portare 80 anni di galera. I pettegoli spulciano le spese pazze dai fondi illegali di Manafort, 18 milioni di dollari riciclati (15,5 milioni euro) che la puntigliosa inchiesta di Mueller elenca: 930.000 dollari per tappeti preziosi, 665.000 per il giardino della villa al mare degli Hamptons, 850.000 per vestiti in un celebre negozio di New York. E del resto Manafort, 68 anni, è da sempre celebre nelle strade del lusso e della politica di Washington per l’eleganza impeccabile, tessuti Principe di Galles e foulard accoppiato, come si addice a un ascoltato consigliere, o lobbista, che aveva in portfolio clienti come gli ex presidenti repubblicani Ford, Reagan, Bush padre, il senatore e candidato alla Casa Bianca Dole, e all’estero, oltre a Yanukovich, una serie di dittatori, lista nera di Amnesty International, dal filippino Marcos, al congolese Mobutu, all’angolano Savimbi. Brutta gente, con cui non ci si fa vedere nei ristoranti a Prospect Street, ma che ingrassa i conti nascosti nelle banche paradiso fiscale, Cipro, Seychelles, Grenadines. E bene, almeno secondo le cifre che Mueller e il suo team, senza che una sola soffiata ne abbia minato il lavoro, imputano all’affabile Manafort e al suo protetto Gates.
Fin qui, però, resta aperto uno spazio prezioso tra Manafort e Trump. Il lobbista fa dire al suo avvocato di non avere mai fatto alcuna dichiarazione contro il presidente. Trump e il genero Kushner, oggetto a sua volta delle attenzioni del team Mueller per i contatti con Mosca, ripetono che le trame di Manafort&Gates sarebbero comunque tutte ordite prima della campagna 2016. Spazio di sicurezza che invece si restringe nel caso di Papadopoulos, già reo confesso di aver illegalmente contattato oscure fonti russe, mentre era impegnato nella squadra di Trump. Papadopoulos ha provato a spostare le date per cancellare le prove, ma la rete ormai non ha amnesie e ha dovuto riconoscere la colpa.
E ora? Il presidente è alla vigilia di un difficile negoziato sulla riforma fiscale, con i repubblicani incerti e parecchie lobby (per esempio quella immobiliare) ostili. La sua popolarità resta discreta nella base militante repubblicana, scema tra indipendenti e moderati e ora deve tornare a guardarsi dall’austero Mueller. Al Senato l’inchiesta parlamentare, guidata dal repubblicano Burr, cui non è andato giù il repentino licenziamento del capo Fbi Comey da parte di Trump, sembra non volergli dare tregua, mentre alla Camera i deputati Conaway, Goodlatte, Gowdy, Grassley, Nunes e Roneey, sono più disposti a seguire l’indicazione della Casa Bianca «Indagate su Hillary!», a proposito di un’oscura vicenda di uranio comprato e venduto.
Tornate a casa dal Cafe Milano, le vecchie volpi politiche accendono la tv, su Cnn (che ha fatto lo scoop sull’incriminazione di Manafort) e Cnbc, liberal, non si vede altro che l’inchiesta contro Trump; Fox, conservatrice, minimizza, e manda in onda servizi sugli emoji, figurine con gli hamburger. Non vi aspettate quel po’ di tolleranza e dialogo che neppure il Watergate contro Nixon e l’impeachment di Clinton riuscirono a disperdere. La capitale, come il Paese, resta divisa e il nuovo dilemma è: Manafort starà muto anche con ottant’anni addosso, o magari cercherà un patto con Mueller, impunità in cambio di informazioni? Ma ha davvero notizie di reato da vendere? L’autunno sarà caldo, e stavolta l’effetto serra non c’entra.
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