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EGGE ELETTORALE
HO ASSISTITO ieri mattina al Teatro Eliseo alla rievocazione dei 10 anni da quando esiste il Partito democratico. I protagonisti di questo racconto politico erano Walter Veltroni che fu il fondatore e accanto a lui il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e il segretario del Pd, Matteo Renzi. Dieci anni, decisivi nella politica italiana e importanti nella politica europea nella quale il Pd è sempre stato europeista. I discorsi dei tre relatori sono stati degni degli applausi dall’inizio alla fine. La platea era gremita e altrettanto le tribune. Veltroni ha parlato del passato, del presente e del futuro, della politica italiana ed europea. Non è stato un semplice racconto ma un’analisi profonda dei fatti e della cultura politica che ha dato a quei fatti un senso e una finalità. È stato, non a caso, l’intervento del fondatore di quel partito, che veniva già da un’esperienza molto intensa fatta con Romano Prodi in uno dei migliori governi italiani di fine anni Novanta. Ma quella formula (l’Ulivo) aveva esaurito il suo compito ed era necessario riprendere l’azione della sinistra su una base diversa. Walter Veltroni ne fu in qualche modo l’inventore e il primo esecutore e dopo una lunga pausa dedicata esclusivamente alla cultura, oggi la passione politica gli è rinata (forse non s’era mai spenta ma non la si vedeva dall’esterno) ed è stata bene accolta come si è visto ieri mattina in quel gremito teatro.
Dopo di lui ha parlato Gentiloni. Non aveva un passato così rilevante da rievocare ma una responsabilità attuale della massima importanza visto che dirige un governo con ministri in maggior parte provenienti dal Pd, ma non soltanto con quelli. Gentiloni ha indicato i problemi in parte risolti e in parte ancora da risolvere, che tuttavia hanno portato avanti il Paese con moderato ma apprezzabile successo e soprattutto in sintonia con il presidente della Repubblica Mattarella che in un’Italia e in un’Europa sconvolti dalla tempesta che infuria sul mondo intero cercano di uscirne al più presto e nel modo migliore non solo per il nostro Paese ma anche per l’Europa alla quale apparteniamo.
Infine Renzi che, a differenza dei due che erano intervenuti prima di lui, ha parlato a braccio. Non aveva un lungo passato come quello di Veltroni, né ha oggi la responsabilità del governo. Il discorso di Renzi è stato soprattutto sul presente e sull’immediato futuro che ne seguirà. Non era un discorso fazioso ma sottolineava quella che è la vera funzione del Partito democratico: opporsi al populismo che sta dilagando in tutto il mondo e anche da noi. In Italia il populismo più evidente e anche più forte è quello dei grillini e sono infatti i Cinquestelle a essere gli avversari principali del Pd; ma non i soli: anche la Lega Nord guidata da Salvini è un populismo che coinvolge e contamina l’intera destra berlusconiana. Questa esplicita presa di posizione di Renzi esclude eventuali alleanze con il Berlusconi attuale il quale ha conosciuto e praticato il populismo fin dall’inizio della sua carriera politica. E tuttavia, nonostante queste precisazioni molto importanti, il Pd secondo Renzi non resterà solo ma potrà allearsi con una parte del centro e con la sinistra dissidente. Questa, qualora esca dal suo isolamento ribellista, potrà rientrare nel suo partito originario e, pur mantenendo i punti di dissenso, farne parte. Perché il Pd è un partito aperto che consente ampie discussioni ma che ha comunque una maggioranza come ce l’hanno tutte le formazioni politiche.
Personalmente ho sempre fatto molte critiche a Renzi e le ho ogni volta documentate. Le critiche sono state però alternate anche da suggerimenti che ritenevo opportuno dargli, primo tra tutti quello di non agire avendo in testa la formula “comando io da solo”, ma formando una squadra della massima autorevolezza che creasse al vertice una collegialità senza la quale è difficile chiamare democratico quel partito. Ebbene, questa collegialità è venuta fuori questa mattina con accenti che sono sembrati a tutti, e anche a me, genuini. Così dopo due ore e mezzo quell’incontro al tempo stesso rievocativo, attuale e proiettato in avanti nel futuro italiano ed europeo è terminato. Credo sia stato un evento positivo per la democrazia italiana.
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Voglio qui ricordare una frase breve ma molto importante che Adam Michnik, che fu un rivoluzionario sindacalista polacco, estremamente importante per i mutamenti politici nel proprio Paese, intervistato dal nostro Andrea Tarquini pochi giorni fa, dice esattamente così: “L’identità tradizionale dei partiti socialdemocratici imperniata sulla difesa dei diritti della classe operaia e dei ceti popolari è un’identità svanita, un’arma spuntata. Non a caso: ciò è avvenuto, magari senza che i partiti socialdemocratici e i loro leader se ne accorgessero a tempo, man mano che partiti e leader democratici ed europeisti d’ogni colore costruivano un’Europa fatta dalla unione o comunità di Stati nazionali dove i valori e le idee socialiste avrebbero dovuto essere al governo e viceversa i socialdemocratici non governano più”.
Questo è un dato di fatto che esiste nella Francia di Macron, nella Germania di Merkel, nella Spagna di Rajoy che è addirittura coinvolta con l’unità nazionale in pericolo. In Italia per fortuna non è così o non è ancora così e quindi la necessità che un partito socialdemocratico come il Pd abbia ben chiara la propria anima e i mezzi per poterla realizzare con le dovute riforme, i valori, e perfino una specie di ideologia che fornisce al popolo sovrano un valore mitologico della propria fede politica. Ho notato che tutti e tre i relatori all’incontro di questa mattina hanno riassunto la loro finalità politico-culturale con il motto “Giustizia e Libertà”. Debbo dire che mi ha molto colpito: è lo slogan lanciato dai fratelli Rosselli, ripreso dal partito d’Azione di Ugo La Malfa e di Riccardo Lombardi, usato dalle Brigate partigiane che erano su quella linea e infine, per il poco che può valere, il valore che costituisce fin dalla sua fondazione la linea politica del gruppo Espresso-Repubblica. Giustizia e libertà è un impegno molto difficile da rispettare perché l’una prevale sull’altra in certe epoche e in certe situazioni e viceversa. Il punto estremamente importante è che quello dei due valori in quel momento minoritario abbia la cura che l’altro valore sia conservato; sembrano alternativi e sono invece complementari: una libertà senza che la giustizia sia salvaguardata e tutelata potrebbe diventare anarchia e una giustizia sociale che rinunciasse alla libertà potrebbe trasformarsi in una dittatura.
Il fatto che ieri questo sia stato lo slogan dei tre protagonisti dell’incontro non va trascurato: è un punto fondamentale della Francia rivoluzionaria e che qui in Italia fu ripreso da Mazzini. Libertà, eguaglianza, fraternità: questo dev’essere ed è lo spirito del Partito democratico.
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Veniamo ora alla legge elettorale in corso di discussione in Parlamento. È una legge che può essere ampiamente discussa nelle sue modalità ma non è ripugnante, forse potrebbe essere migliore ma nelle circostanze pressanti in cui ha dovuto essere varata non credo che ci fossero molte alternative. Del resto non si può dire che è una legge liberticida perché si direbbe il falso. Il vantaggio numero uno di essa è l’omologazione tra Camera e Senato. Se questa omologazione mancasse noi avremmo un Paese ingovernabile poiché una delle due Camere potrebbe spesso contestare e respingere un disegno di legge proposto dall’altra. Questo è avvenuto spesso nei governi della seconda metà del ventesimo secolo ed è stato uno dei motivi d’una politica lenta ad attuarsi, a meno che il capo non avesse una qualità leaderistica molto forte e in quanto tale anche alquanto pericolosa per la democrazia.
La legge in corso di discussione sana completamente questa diarchia tra le due camere, lasciando naturalmente a ciascuna un’ampia libertà di discutere e analizzare decreti e disegni di legge.
Quanto alla inopportunità di aver messo la fiducia, personalmente la ritengo incomprensibile: non c’è molto tempo per l’approvazione, dal novembre comincia in Parlamento l’esame, il dibattito e infine l’approvazione definitiva della legge di Bilancio. Nel corso di questo dibattito lo statuto delle Camere stabilisce che nessun’altra legge possa essere discussa fino a quando quella di stabilità non sia stata approvata, il che avviene normalmente alla fine del mese di dicembre. Dopo quel mese le vacanze natalizie portano alla chiusura del Parlamento fino al 10 di gennaio. Dal 10 di gennaio fino al termine della legislatura ci sono 40 giorni, pochissimi per appoggiare una legge elettorale diversa da quella presente poiché mancherebbe il tempo e per di più sarebbe molto difficile che il dibattito parlamentare portasse a una velocissima concordanza tra il populismo e la democrazia. Qui sta la chiave per la quale la legge attuale doveva essere presentata, si spera venga accettata dalla maggioranza del Senato (alla Camera è già avvenuta) ed entri dunque in vigore.
Ho letto sul nostro giornale nei giorni scorsi molti miei carissimi amici, che fanno parte dello staff di Repubblica, esprimersi nei loro articoli in modo decisamente contrario al mio, sia sul contenuto della legge sia sulla fiducia chiesta dal governo. Ricordo a questi amici che la fiducia copre la prima votazione ma viene poi seguita dal voto definitivo a scrutinio segreto e non nominale quando la fiducia c’è. Il finale cioè è senza fiducia la quale rafforza la convinzione sulla legge ma preserva la segretezza del voto decisivo e non a caso in quel voto alla Camera ci sono stati 50 deputati che avevano votato la fiducia ma poi nel segreto hanno votato contro. Ne deduco ovviamente che la libertà di voto è preservata.
Ieri Repubblica ha pubblicato un articolo di fondo in prima pagina di Gustavo Zagrebelsky. È un mio amico, gli voglio bene e ho grande stima per le sue capacità giuridiche ma sono da tempo in totale disaccordo sulla sua posizione politica. Lui ha molta considerazione per il popolo sovrano. È il popolo che deve decidere e decide e questa è la democrazia.
La mia tesi è molto diversa. La democrazia non ha mai affidato i poteri al popolo sovrano e quindi la sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti. È sempre stato così nella storia che conosciamo, a partire da quella di Roma antica quando ancora era una grande Repubblica con la cittadinanza di tutti i popoli italici che poi fu lentamente estesa a tutti gli abitanti delle terre che Roma conquistò. Chi governava era il Senato e c’era un tribuno della plebe che (coperto dalla sacralità) operava affinché le decisioni del Senato fossero favorevoli al popolo. Era cioè la realizzazione di quello che è sempre avvenuto: i pochi debbono governare nell’interesse dei molti. Senatus populusque romanus, i pochi governano per il bene dei molti. Se si vota in una piccola città per il sindaco gran parte degli elettori lo conosce e gli può piacere e non piacere e votarlo o non votarlo ma se si tratta di un intero Paese il popolo non conosce i candidati, vota per il partito al quale si sente più vicino. Questa è la libertà del popolo sovrano: non la scelta della persona ma la scelta del partito dal quale ci si aspetta il bene e non il male. E se il male arriva quel partito viene abbandonato a meno che non intervenga addirittura un potere indipendente e cioè quello giudiziario, per eventuali sanzioni del caso.
Non sono io che mi invento queste cose ma è la storia millenaria che ce lo insegna. Ecco perché mi è molto dispiaciuto di essere praticamente la sola voce che sostiene queste tesi. Ma i legami che ho di amicizia, di apprezzamento e di profonda comunanza dei valori fanno sì che questa differenza di idee venga sorpassata. È pienamente comprensibile. Noi tutti siamo accomunati dall’ideale di “Giustizia e Libertà”. Questo è quello che conta, è l’anima del nostro giornale e di tutti noi che ci lavoriamo.
/larepubblica
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