Le parole di Papa Francesco riaprono il dibattito su una legge che è bloccata al Senato da 7 mesi. «Una grande lezione di saggezza» commenta Luigi La Spina.
Una mossa per superare le ideologie
U
na lezione che dovrebbe indurre, subito, i politici di una legislatura pur agli sgoccioli a un soprassalto di dignità, con la consapevolezza di non poter abdicare ai successori il compito di varare una legge che tanti malati e tanti familiari di malati attendono da troppo tempo e con una insopportabile angoscia. Per una volta, anzi, i tempi molto stretti potrebbero obbligare all’abbandono di pregiudiziali ormai insensate, per raggiungere un accordo che, nella coscienza dell’opinione pubblica, è già ampiamente maturato, attraverso le esperienze drammatiche e struggenti di tante famiglie italiane.
L’intesa su una realistica e chiara legge sul cosiddetto «fine vita» potrebbe riscattare, almeno in parte, una legislatura certamente non esaltante e restituire un po’ di fiducia, proprio alla vigilia di nuove elezioni, sull’utilità e il significato di un impegno politico che non si esaurisca in una noiosa e sterile lotta per un potere autoreferenziale e lontano dalle più profonde esigenze dei cittadini. Ed è quasi paradossale, ma molto significativo, che partiti e leader, o pseudo leader, possano, forse, essere costretti solo dalla sollecitazione di un Papa coraggioso e autorevole come Francesco, a rinunciare a meschini calcoli elettorali e alla difesa di distinzioni identitarie che gli italiani non riconoscono più.
Eppure, la strada di un accordo è più agevole di quello che un argomento così delicato possa far supporre, se ci si concentra sui compiti di uno Stato laico, uno Stato che non impone un’etica ai suoi cittadini, se non quella del rispetto della loro libertà di coscienza, soprattutto davanti all’ultimo confine dell’esistenza umana. Ecco perché non è lo Stato a cui è affidata l’ultima parola, ma alla persona malata o ai familiari, assistiti da medici competenti e consapevoli della loro primaria funzione, quella di alleviare, finchè è possibile, la sofferenza di chi si è affidato alle loro cure. Senza, come dice il Papa, «abbreviare la sua vita, ma senza accanirsi inutilmente contro la sua morte», perché sostituire funzioni biologiche insufficienti o del tutto mancate non vuol dire assicurare la salute a un malato.
C’è una confusione mentale pericolosa di fronte ai traguardi sempre più sorprendenti della moderna medicina e della più avanzata tecnologia. Quella che la tentazione di applicarle all’uomo non conosca alcun limite, neanche quello della sua natura, che lega indissolubilmente la vita alla morte. Così da trasformare formidabili conquiste al servizio dell’umanità, in totem a cui sacrificarla quella umanità. Col risultato opposto a quello che si vuole ottenere, come è evidente in questi giorni, quello di una sfiducia e di un sospetto generalizzato di molti cittadini per la scienza, considerata succube di interessi economici e indifferente di fronte alle conseguenze di certi esperimenti biologici per la salute e la felicità delle popolazioni su cui si esercitano.
Non è più ammissibile, infine, l’ipocrisia e la pietosa omertà che tutti i giorni e in tutti gli ospedali italiani costringono medici e familiari a nascondere la realtà di quanto avviene negli ultimi giorni e nelle ultime ore di persone senza più alcuna speranza di una vita che sia davvero tale. Uno Stato che obbliga i suoi cittadini, proprio in momenti così disperati, all’umiliazione di una complicità silenziosa per alleviare inumane sofferenze ai propri cari, è colpevole di una viltà che davvero ne mina non solo il rispetto della comunità che dovrebbe rappresentare, ma le ragioni della sua esistenza.
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