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La Caronte&Tourist posta sotto sequestro, avrebbe agevolato la ‘ndrangheta

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La DIA ha eseguito il provvedimento di amministrazione giudiziaria per 6 mesi nei confronti della Caronte&Tourist Spa con sede a Messina.

La Direzione investigativa antimafia, coordinata dalla Procura della Repubblica – Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, diretta dal Procuratore Capo Giovanni Bombardieri, con l’operazione di oggi denominata «Scilla e Cariddi» ha dato esecuzione ad un provvedimento emesso dalla Presidente sezione Misure di prevenzione, Ornella Pastore, ai sensi dell’articolo 34 del Codice antimafia, con il quale è stata disposta l’amministrazione giudiziaria, per un periodo di 6 mesi, nei confronti della Caronte & Tourist Spa, con sede a Messina.

Con lo stesso provvedimento è stato disposto il sequestro dei beni nella disponibilità di Massimo Buda, figlio di Santo Buda, appartenente alla famiglia Buda di Villa San Giovanni, federata alla potente ‘ndrina Imerti–Condello (la ‘ndrina Imerti-Condello è una cosca malavitosa calabrese) attiva nel comprensorio di Villa San Giovanni e territori limitrofi.

Il decreto del Tribunale è stato emesso su richiesta dei Sostituti procuratori Stefano Musolino e Walter Ignazio, coordinati dai Procuratori aggiunti Calogero Gaetano Paci e Giuseppe Lombardo, che hanno delegato alla Dia gli accertamenti patrimoniali, in esito alle acquisizioni investigative del procedimento convenzionalmente denominato “Scilla e Cariddi”.

Ci eravamo occupati in precedenza di indagini sulla Caronte&Tourist “18 Dicembre 2019 Arrestato sindaco e manager di società di traghettamento” e “10 Gennaio 2020 Beni per oltre 3,5 milioni di euro sequestrati nello Stretto di Messina”.

Le indagini attuali hanno fatto emergere, anche grazie alle convergenti dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, la permeabilità della società Caronte & Tourist Spa rispetto ad infiltrazioni della criminalità organizzata, nonché l’agevolazione garantita dalla medesima società in favore di più soggetti legati alle locali articolazioni di ‘ndrangheta.

Sarebbero emersi anche i rapporti tra la Caronte&Tourist e l’imprenditore Domenico Passalacqua già condannato in via definitiva per associazione mafiosa nel processo Meta*.

In particolare sono stati individuati in Passalacqua, già conosciuto alle forze dell’ordine, ed in Massimo Buda (quest’ultimo anche nella qualità di rappresentante del padre Santo, esponente apicale dell’omonima cosca), entrambi dipendenti del vettore marittimo, i portatori degli interessi della ‘ndrangheta, agevolati da Caronte & Tourist Spa. Gli interessi economici dei predetti sono stati garantiti attribuendo ad imprese ad essi riferibili vari servizi all’interno delle navi che fanno la spola tra le coste siciliane e calabresi.

Queste imprese di fatto nella disponibilità dei citati Buda e Passalacqua (e di altri soggetti agli stessi legati), hanno potuto gestire, ricavandone ingenti profitti, i servizi di bar-ristorazione e quelli di pulizia e disinfestazione a bordo delle imbarcazioni, nonché i servizi di prenotazione per gli autotrasportatori che si imbarcano sui traghetti del gruppo Caronte & Tourist.

Gli esponenti delle locali cosche sono stati altresì agevolati tramite l’assunzione di personale segnalato dai predetti e, nel caso del Passalacqua, garantendo la retribuzione anche durante la latitanza e la sottoposizione a misura cautelare.

A Massimo Buda, infine, è stata garantita una rapida e brillante progressione in carriera, con la capacità di promuovere e gestire le nuove assunzioni e con la delega conferitagli per la risoluzione delle controversie tra dipendenti o con i fornitori.

La nota compagnia di navigazione destinataria del provvedimento, il cui valore viene stimato in circa 500 milioni di euro, ha un capitale sociale di  2.374.310,00 e vanta numerose partecipazioni in altre società, insieme alle quali svolge, in massima parte, servizi di navigazione non solo sullo stretto di Messina, ma anche in ulteriori tratte tra la Sicilia e altre destinazioni.

Gli accertamenti investigativi hanno evidenziato come Massimo Buda, rappresenti la longa manus del padre Santo, nell’ottobre 2020 condannato in appello alla pena di 14 anni e 8 mesi di reclusione, nel procedimento penale “Sasnsone”, perché ritenuto il reggente della cosca Buda-Imerti di Villa San Giovanni.

La sezione Misure di prevenzione ha, pertanto, contestualmente disposto nei confronti di Massimo Buda il sequestro dei seguenti beni: 2 ditte individuali comprensive dell’intero patrimonio aziendale con sede a Villa San Giovanni; 5 appezzamenti di terreno di cui uno edificabile di complessivi metri quadri 700; 2 appartamenti ed un garage a Villa San Giovanni; 1 appartamento con box e piccolo vano cantinato nel Comune di Lissone (Milano) e disponibilità finanziarie.

Il valore complessivo dei beni sottoposti a sequestro nei confronti di Massimo Buda è stimato in circa 800 mila euro.

«

Mi preme però sottolineare – ha affermato il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Bombardieri – che la misura dell’amministrazione giudiziaria presuppone che il titolare dell’azienda sia terza rispetto ai soggetti pericolosi».

«Non si parla di controllo dell’azienda – ha spiegato il Procuratore Capo della Procura di Reggio Calabra, Giovanni Bombardieri – Ove ci fosse stato un controllo, ben altre sarebbero state le misure da adottare. Qua non stiamo parlando di un sequestro finalizzato alla confisca ma di un’amministrazione giudiziaria svolta nell’interesse della stessa società per consentire di bonificare quelle situazioni che si sono verificate. È evidente che si parla di agevolazione che si è sviluppata con quei servizi che hanno consolidato le cosche di riferimento di determinati soggetti. Il collaboratore di giustizia Cristiano ci dice che c’è stato un patto di non belligeranza con la cosca Bertuca che non si interessava delle vicende della Caronte in quanto sapeva che c’erano i Buda-Imerti».

«Quello di oggi è sicuramente tra i più importanti provvedimenti di amministrazione giudiziaria che siano mai stati eseguiti in Italia» ha aggiunto il Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che ha ricordato l’inchiesta “Breakfast” sugli interessi e l’operatività del gruppo Matacena nel settore del traghettamento sullo Stretto di Messina.

«Le vicende della società che ha gestito il traghettamento sullo Stretto storicamente ha suscitato gli interessi mafiosi – ha proseguito il Procuratore aggiunto Gaetano Paci – Quello che è stato focalizzato con il provvedimento di oggi è che questi interessi mafiosi nel tempo hanno trovato un radicamento attraverso lo sfruttamento delle capacità imprenditoriali della società. Nel fare questo si è tenuto conto del ruolo criminale di questi soggetti».

La “Caronte” dal 19 giugno del 1965, di fatto detiene il monopolio dell’attraversamento navale dello Stretto di Messina. La società, su impulso di armatori napoletani, i fratelli Amedeo e Elio Matacena (Amedeo Gennaro Raniero Matacena è stato anche un deputato alla Camera dei Deputati nel collegio di Villa San Giovanni nella lista ‘Polo del Buon Governo’, in quota Unione di Centro, la struttura politica dei i liberali del Partito Liberale che aderirono al centrodestra, per poi confluire in Forza Italia, fu condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa), avviò le attività proprio in quella data collegando Reggio Calabria con Messina. Solo dopo tre anni, nel 1968, la “Tourist ferry boat”, di proprietà della famiglia Franza, avvierà la rotta Messina-Villa San Giovanni, iniziativa che porterà al patto di fusione concordata nel 2003, alleanza tra i due gruppi armatoriali tutt’ora solida.

La società, nel corso di questi anni, ha subito anche i contraccolpi di alcune inchieste giudiziarie che ne hanno offuscato l’immagine. Tra queste l’arresto di Francantonio Genovese, socio dei Franza, deputato all’Ars per il Partito Democratico poi transitato nel centrodestra, per una questione legata alla gestione di fondi per la formazione professionale, e l’ancor più grave condanna definitiva a tre anni di reclusione emessa dalla Corte di Cassazione per concorso esterno nella ‘ndrangheta, a carico di Amedeo Matacena junior, ex parlamentare di Forza Italia, adesso latitante a Dubai.

Dopo la fusione del 2003, il gruppo ha macinato risultati finanziari di tutto rilievo, fino a dichiarare, nel 2017, un patrimonio aziendale di 30 navi, con 1200 addetti e circa trecento milioni di euro di fatturato.

* Nel processo Meta, il 23 aprile 2017 la Corte d’Appello di Reggio Calabria, Presidente Antonino Giacobello, ha confermato la sentenza di primo grado, con rito ordinario, che aveva visto il collegio del Tribunale presieduto da Silvana Grasso, De Pascale e Sapone a latere, il 7 maggio del 2014, infliggere pene per complessivi 262 anni di reclusione ai boss di Reggio Calabria.

Il processo era scaturito dall’omonima operazione, condotta dai Carabinieri del Ros di Reggio Calabria nel giugno 2010, che avevano eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip del capoluogo, su richiesta della locale Procura Distrettuale Antimafia, nei confronti di 42 affiliati (più 30 indagati) alle più importanti cosche ‘ndranghetiste del capoluogo e dei comuni limitrofi, indagati a vario titolo per associazione mafiosa, procurata inosservanza della pena, favoreggiamento personale, turbata libertà degli incanti, trasferimento fraudolento di valori, estorsione ed altri delitti, aggravati dall’art. 7 L. n. 203/91 (modalità o finalità mafiose).

La Corte di Appello da un lato ha inflitto pene pesanti, fino a 27 anni di reclusione per Giuseppe Carlo De Stefano, ma sia per lui che per altri imputati ha riconosciuto la continuazione con fatti già giudicati, il che significa che gli imputati che hanno ottenuto il riconoscimento della continuazione hanno già scontato una buona parte della pena. Nel caso di De Stefano, inoltre, il riconoscimento della continuazione evita che la pena complessiva venga commutata in ergastolo.

Unico assolto è Stefano Vitale, difeso dall’avvocato Francesco Calabrese. Significativo sconto di pena (21 anni in primo grado) per Antonino Imerti, difeso anch’egli dall’avvocato Francesco Calabrese (che difende anche Pasquale Condello, Giovanni Tegano, Domenico Condello, Domenico Passalacqua 11 anni e Natale Buda 14 anni), per il quale la Corte d’Appello ha dichiarato il non doversi procedere in ordine a un capo di imputazione in assenza di revoca della sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gup del Tribunale di Reggio Calabria il 27 febbraio 2007, limitatamente al periodo compreso da il 12 dicembre 2005 e il 27 febbraio 2007; e ha così rideterminato la pena, con riferimento al residuo periodo di contestazione, e un altro capo di imputazione, in 14 anni.

La Cassazione, però, nel maggio 2019, pur confermando l’impianto accusatorio della Procura aveva annullato, nei confronti di quattro imputati, la sentenza di primo e secondo grado. In sostanza secondo la Suprema Corte c’era un difetto di correlazione tra la contestazione e la condanna. Essendo deceduto Pasquale Libri, ovviamente, la Dda non ha proceduto con l’azione penale per il boss di Cannavò.

Nei loro confronti e nei confronti di Domenico Condello, detto “Gingomma” e considerato il braccio operativo del “Supremo”, il Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e i Sostituti della Dda Sara Amerio, Walter Ignazitto e Stefano Musolino hanno emesso un avviso di conclusione indagini.

Ci sarà quindi un nuovo processo “Meta” per alcuni boss della ‘ndrangheta di Reggio Calabria. La Direzione distrettuale antimafia reggina ha ripreso l’azione penale contro i boss Pasquale Condello, detto il “Supremo”; Giuseppe De Stefano e Giovanni Tegano.

L’accusa per tutti è di associazione a delinquere di stampo mafioso e di aver fatto parte di “un articolato organismo decisionale di tipo verticistico”. I tre boss erano stati già condannati a pene pesantissime, oltre i 20 anni, dal Tribunale di Reggio Calabria e dalla Corte d’Appello.

Adduso Sebastiano

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