Nell’ irruzione di Como dei naziskin, si evidenzia una escalation di fenomeni di discriminazione nei quali, come scrive Cesare Martinetti, “c’è molto di antico, ma c’è soprattutto molto di nuovo in questa operazione che pur condotta senza l’uso del manganello ha un inequivocabile marchio squadrista”.
L’avanguardia che fa politica in casa nostra
Bisogna guardare con lucidità le facce di questi quindici ragazzi vestiti come in divisa: jeans un po’ slavati e bomber nero, capelli cortissimi, qualche cranio rasato, qualche barba curata. Espressioni dure, minacciose nella forza della presenza, silenziosa e ordinata con cui hanno spalleggiato il portavoce, un giovanotto che ha letto un breve testo, scandito come un comunicato. Sono facce normali, non mostri o caricature di mostri, nessuna anticaglia nostalgica, non avevano creste sulla testa, né borchie sulle spalle.
B
isogna guardarli bene perché sono l’avanguardia di un movimento che si sta dilatando a galassia, che si muove e si articola laddove la politica tradizionale è rimasta senza parole. Sono i missionari di un verbo antico che rispetta una grammatica scontata ma che riempie i vuoti di risposte e di paure. L’operazione compiuta martedì sera a Como non può essere stata improvvisata, risponde a una strategia elaborata in quel Veneto profondo e fecondo dell’estrema destra italiana, dove sono state progettate e realizzate le stragi nere della storia dell’Italia repubblicana. Ma esprime anche domande «nuove», diffuse, politiche. Sarebbe sbagliato guardare all’azione compiuta a Como come a una semplice rievocazione squadristica. Meno che mai al lugubre folklore naziskin.
Tutto questo avviene mentre in modo sempre più palese si manifesta nel resto d’Europa una rete che ha come epicentro Budapest, l’Ungheria del duce Orban che sta emergendo sempre più come il leader che ha creato l’ambiente ideale per l’incubazione di un nuovo paradigma nero. Su «La Stampa» di oggi trovate il reportage di Andrea Paladino da Ásotthalom, nome ideale da fantasy gotico, al confine tra Ungheria e Serbia, laddove passa il «muro» (uno dei tanti del nuovo mondo), barriera di ferro e di simboli, dove l’Ungheria ha costruito la sua diga contro il fiume di siriani che due anni fa scappavano dalla guerra. Qui si incrociano i fili dell’estrema destra italiana con quelle del resto dell’Europa, soprattutto dell’Est, dove nel giro di pochi anni l’emancipazione dall’Urss ha alimentato un nazionalismo aggressivo che si esprime in regimi democratici, ma che teorizzano soluzioni autoritarie, in Polonia, Cechia, Bulgaria e formalizzate nel gruppo di Visegrad, spina costante nel cuore dell’Unione europea. Il modello è Putin, leader riconosciuto delle democrature post comuniste, protettore al tempo stesso di tutti i valori anti-Ue e del despota siriano Assad. Ma piace molto anche Erdogan, leader di un Paese come la Turchia altra sentina storica di lupi grigi e poteri armati.
Da Visegrad a Ostia il passo è meno lungo di quanto possa sembrare. È nelle periferie degradate che la debolezza dei regimi democratici ha lasciato praterie da conquistare non tanto o soltanto con le testate degli scagnozzi mafiosi ai giornalisti, ma con la disciplina dei giovani militanti di CasaPound e dintorni che battono i quartieri abbandonati a se stessi. Crolla la partecipazione ai riti democratici, il welfare non dà risposte, gli stranieri appaiono una presenza minacciosa. O le nostre democrazie sapranno dare presto risposte e uscire dalla retorica o i ragazzi del bomber sono destinati a crescere. Guardateli bene.
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