Divergono assai, la visione che dell’Europa ha Matteo Renzi e quella che ne ha Mario Draghi. Dentro a questa contrapposizione tra i due principali italiani del continente si legge in modo esemplare una difficoltà che è di tutti. L’impazienza del primo conquista la scena proprio quando il sapiente gradualismo del secondo è forse vicino ai suoi limiti.
In questo inizio d’anno in cui l’intero pianeta sembra debba rassegnarsi a una ripresa economica fievole, se non temere una nuova ricaduta, è naturale mettere in questione i rimedi pazienti (lo stesso governo italiano si trova in difficoltà sulle banche non perché non ha agito, ma perché non l’ha fatto abbastanza in fretta).
Draghi è stato definito «il primo degli europeisti». Come capo dell’unica istituzione davvero federale, ha tutto l’interesse che il processo di unione vada avanti. Dopo aver salvato l’euro nel 2012, un anno fa è riuscito ad adottare potenti misure di espansione monetaria che la Bundesbank voleva impedire. I risultati sono buoni – in Italia credito meno caro di 1,2 punti per le imprese, 0,5% di maggior crescita del Pil nel 2015 – eppure non sufficienti.
Nel mondo si discute se per ottenere una valida ripresa basti la sola azione delle banche centrali.
Nell’area euro per giunta la Bce è intralciata dai contrasti degli interessi nazionali, soprattutto delle lobby finanziarie. Contro i tassi di interesse a zero non combattono solo le banche tedesche, perché non ci guadagnano; ora, pare, anche quelle francesi.
Fin qui, Draghi ha avuto sostegno da Angela Merkel, a dispetto di molti in Germania. Ora i due appaiono «leidgenossen», ovvero compagni di sventura: la cancelliera sotto attacco della destra politica a causa dei migranti, l’italiano di Francoforte sotto attacco della destra economica perché le sue scelte monetarie gioverebbero soltanto ai Paesi deboli.
Si vede bene uno scarto tra quanto sui pericoli del momento affermano Draghi e i membri del direttivo a lui vicini, il belga Peter Praet e il francese Benoît Coeuré, e le fiacche decisioni prese dal consiglio Bce nel suo insieme. Serve tempo per comporre i dissensi. Nuove misure espansive arriveranno non prima di marzo, il loro effetto sarà lento.
Renzi, per parte sua, si è convinto che l’Italia non può più aspettare. La stessa confusione che mette in difficoltà i tecnici – litigio di tutti contro tutti sui profughi, Spagna senza governo, Francia incapace sia di guardare oltre i propri confini sia di riformarsi davvero, paura del terrorismo – eccita il suo azzardo politico. Dato che nessuno è capace di guidare, tanto vale alzare la voce.
La questione da porsi è se davvero le regole europee ci impediscono di fare qualcosa che, da soli, faremmo meglio. Sulle sofferenze bancarie la Commissione di Bruxelles ha sgradevolmente ecceduto, tuttavia non è priva di ragioni. Sull’Ilva si capisce che a noi prema salvare il lavoro a Taranto, non è falso che l’Europa abbia acciaierie in sovrappiù.
E quanto può aiutarci trasgredire i vincoli di bilancio? La «flessibilità» ottenuta finora, già ampia, come effetti di crescita vale non oltre un terzo rispetto alla azione della Bce. L’austerità modello tedesco del «Fiscal compact» è sempre più screditata nel mondo; non è però attraente, né presumibilmente efficace, sostituirle vecchie pratiche di spesa pubblica all’italiana.
Vedremo se questo gioco rischioso funziona. Tra i numerosi guai dell’Europa, quasi tutti non si comprende come possano essere risolti se non con strumenti collettivi. Occorre avanzare proposte. Altrimenti a molti altri Paesi la disciplina teutonica, seppur gravosa e scarsa di speranze, apparirà male minore rispetto a nostre intemperanze di corto respiro.
*lastampa
Lascia un commento