Perché è un errore abolire lo split payment

Il governo vuole abolire lo split payment, il meccanismo anti-evasione per cui la pubblica amministrazione che...

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Il governo vuole abolire lo split payment, il meccanismo anti-evasione per cui la pubblica amministrazione che acquista da un privato versa essa stessa l’Iva al fisco scorporata dalla fattura. Un sistema che – pur consentendo compensazioni per i contribuenti onesti – ha fatto recuperare 3,5 miliardi di euro di introiti.

Le pubbliche amministrazioni versano direttamente al fisco l’Iva per l’acquisto di beni e servizi da privati. È lo split payment e ha garantito un buon recupero dell’evasione, senza troppi costi per i contribuenti onesti. Ora il governo vuole eliminarlo.

A cosa serve la scissione dei pagamenti

Stando ai ripetuti annunci, tra i primi provvedimenti del governo oltre all’abolizione del redditometro e dello spesometro ci sarà anche quella dello split payment.

È davvero difficile capire che cosa tenga insieme le tre abolizioni al di là dell’idea che si tratterebbe di misure che “creano dei problemi ai contribuenti onesti”. Il problema, beninteso, esiste: in un paese caratterizzato da evasione di massa, come il nostro, tutte le misure normative – e quindi applicate a tutti i contribuenti – finalizzate a ridurre l’evasione hanno un costo perché finiscono per danneggiare in una certa misura anche i contribuenti onesti. La razionalità imporrebbe di introdurle e mantenerle se e solo se i) i costi subiti dai contribuenti onesti possono essere ridotti in misura tale da essere nulli o almeno sopportabili e ii) se questi costi sono largamente inferiori ai benefici collettivi – cioè al recupero di gettito – ottenuto a spese dei contribuenti disonesti.

Ebbene, nel caso dello split payment sembrano verificarsi entrambe le condizioni, o comunque si può conseguirle attraverso ulteriori affinamenti dello strumento. L’abolizione della misura è quindi del tutto illogica.

Introdotto con la legge di stabilità per il 2015, lo split payment è il meccanismo che prevede che l’Iva originata dalla vendita di un bene o di un servizio da un operatore privato a una pubblica amministrazione anziché venire inclusa nella fattura di vendita emessa dal primo soggetto, pagata dalla Pa e poi versata dal fornitore – secondo il normale funzionamento dell’imposta – venga direttamente versata dalla Pa al fisco e scorporata dalla fattura. La scissione dei pagamenti è stata introdotta per la necessità di recuperare l’Iva che i fornitori trattenevano illegalmente. I contribuenti onesti subiscono, d’altra parte, la riduzione dell’Iva a debito (quella che avrebbero ricevuto dalla Pa e che devono versare al fisco) e quindi si trovano ad avere maggiori crediti Iva netti, con conseguenti possibili problemi di liquidità.

La tutela dei contribuenti onesti

Il nostro sistema ha tuttavia due meccanismi che consentono di ridurre tali costi. Il primo è la possibilità, unica in Europa, di compensare i crediti Iva anche in modo “orizzontale” ovvero non solo con l’Iva a debito, ma anche con altre imposte o contributi dovuti.

Il secondo è la possibilità, in alternativa alla compensazione, di richiedere il rimborso anticipato rispetto ai tempi ordinari. L’attivarsi dei due meccanismi di tutela dei contribuenti onesti – per i contribuenti disonesti il problema non si pone perché, non dichiarando l’Iva a debito in precedenza, la loro posizione creditoria netta non cambia – è testimoniata dal fatto che, come riportato nello studio europeo sui diversi meccanismi di split payment, nel caso italiano vi è stato un forte incremento di rimborsi e di compensazioni nel biennio 2015-2016, per circa 1,8 e per circa 1,2 miliardi, rispettivamente, attribuibile proprio allo split payment. Ciò nonostante, l’incremento di gettito Iva, stimato attraverso l’analisi di un controfattuale, sempre nel biennio 2015-2016, si è comunque attestato a circa 3,5 miliardi. Ciò testimonia il fatto che l’Iva che prima dello split payment non veniva versata dai contribuenti disonesti supera ampiamente la maggiore Iva chiesta in restituzione, a seguito dello split payment, dai contribuenti onesti. Inoltre questa stima, ormai ufficiale, segnala l’esigenza di trovare opportune coperture per l’abolizione dello split payment a saldi invariati di finanza pubblica.

Ovviamente, per arrivare a questi risultati sia il settore privato sia quello pubblico hanno dovuto sostenere ingenti “costi di adattamento” dei software e delle procedure amministrative. Tuttavia, è da ritenere che siano già stati assorbiti e quindi non possano giustificare, ora, l’abolizione dello split payment.

Sebbene sia evidente che i benefici collettivi dello split payment siano stati superiori ai costi variabili, è ovviamente del tutto legittimo pensare che sia necessario ridurre ulteriormente questi ultimi perché rimborsi accelerati e compensazioni non riescono ad alleviare i problemi di liquidità di tutte le imprese. Ma la risposta razionale è nel miglioramento ulteriore delle procedure di rimborso ed eventualmente nell’allentamento dei vincoli alle compensazioni orizzontali per i soggetti – facilmente tracciabili peraltro – che subiscono l’applicazione dello split payment.
Alla risposta razionale si potrebbe obiettare che, comunque, non è realistico pensare che i costi a carico dei contribuenti onesti siano del tutto azzerati, come dovrebbe accadere nel mondo ideale dove si attua l’ormai mitologico “incrocio delle banche dati”.

In teoria, passare da misure normative generalizzate a misure amministrative mirate è la strada giusta. Ma a ben guardare si tratta di un’affermazione semplicistica e contraddittoria. Semplicistica perché per ottenere un salto di qualità nell’utilizzo dei big data per il contrasto dell’evasione è necessario mettere in campo un insieme articolato di riformee non basta schiacciare un tasto su un computer. Contraddittoria perché, come ricordato anche da Bruno Tinti su Italia Oggi, la principale banca dati – ancora molto poco utilizzata – è proprio quello spesometro che oggi si vuole abolire.

Alessandro Santoro/lavoce.info

ALESSANDRO SANTOROfoto-as-80x80 ha conseguito il MSc. in Economics presso l’Università di York nel 1997 e il dottorato in economia politica presso l’Università Cattolica nel 2001. E’ attualmente professore associato confermato di scienza delle finanze presso il DEMS dell’Università di Milano-Bicocca, dove insegna anche politica economica ed è pro-rettore al Bilancio e delegato del rettore al diritto allo studio. Svolge attività didattica anche presso il PAM dell’Università Bocconi ed è affiliato del centro di ricerca Dondena. E’ stato esperto tributario presso il Secit (Ministero delle finanze) dal 1999 al 2004,  consigliere del vice-ministro all’economia e alle finanze dal 2006 al 2008 e consigliere economico del presidente del consiglio dei ministri dal settembre 2014 al dicembre 2016. Ha partecipato a diversi gruppi di lavoro e commissioni ministeriali, tra cui la commissione per la redazione della relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva e la commissione per la revisione degli studi di settore (cd. commissione Rey). E’ attualmente membro del comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate.  Le sue principali pubblicazioni riguardano l’impatto delle misure di contrasto dell’evasione fiscale, gli studi di settore, i diversi modelli di tassazione familiare  e la misura della disuguaglianza.

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