Sirte: gli orrori dell’occupazione islamista

Francesco Semprini è entrato a Sirte nelle prigioni del Califfo dopo la liberazione di parte della...

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Francesco Semprini è entrato a Sirte nelle prigioni del Califfo dopo la liberazione di parte della città libica e ci racconta gli orrori dell’occupazione islamista nella città natale di Gheddafi. 

Torture, bandiere nere e spie. Viaggio nella Sirte liberata

Gli orrori dell’occupazione islamista nella città natale di Gheddafi. Sui muri della prigione spuntano le minacce: “Conquisteremo Roma”

Sono libico, sono musulmano e sono rinchiuso qui dentro. Ma non so perché». Il grido di disperazione è inciso sul muro di una cella sotterranea nel palazzo che un tempo ospitava la polizia segreta di Muammar Gheddafi, nel cuore di Sirte. Sui tetti della città natale del Colonnello hanno sventolato per circa 14 mesi le bandiere nere dello Stato islamico, come quella appena ammainata nell’ex sede dell’intelligence del regime di cui gli jihadisti al soldo di Abu Bakr al Baghdadi hanno conservato destinazione d’uso. Il palazzo al centro di Abu Faraa era una specie di centrale antispionaggio in cui venivano portati i «nemici» del califfato. Sui muri del piano terra campeggiano scritte di propaganda, come quella strappata dalla grafica accattivante che inneggia alla jihad contro gli infedeli su un tripudio di vessilli neri, uomini mascherati e furgoncini con mitragliatori. Sul pavimento ci sono resti di telefonini e certificati di ogni genere appartenenti a sospetti spie e cospiratori rinchiusi nelle segrete del seminterrato.

Gli interrogatori  

Celle di pochi metri quadrati con una finestrella sul livello della strada e un paio di materassi per terra. Qui venivano interrogati e torturati, come raccontano i combattenti delle «katibe», le brigate che hanno partecipato alla cacciata dell’Isis da questa parte di Sirte. Brigate come quelle di Misurata le cui effigi compaiono sui muri delle case liberate o la brigata «martiri di Sirte» guidata dal comandante Salem. «Alcuni morivano di stenti per percosse o torture», racconta il combattente, tra i primi a entrare nelle segrete. Evidenti le testimonianze dell’orrore in nome della sharia come spiega una manifesto: «Sette motivi per non essere un vero musulmano». Ci sono poi i messaggi lasciati sui muri, una sorta di testamento dei rinchiusi e dei condannati a morte, che parlano di «voglia di libertà» o di «tornare a pregare liberamente in moschea». In quelle segrete è stato rinchiuso forse qualche occidentale o qualcuno che in Europa ha vissuto e che spera di tornarci come suggerisce la scritta «German». Per comprendere il non senso di tanta brutalità il generale Salem legge una frase sul muro: «Sono libico, sono musulmano, sono rinchiuso qui dentro. Ma non so perché».

Tracce di vita vissuta nella Sirte occupata, terza capitale del califfato, dopo Raqqa in Siria e Mosul in Iraq. Come le gigantesche bandiere nere, murales del terrore che segnano il distretto di Abu Faraa, quartiere liberato da poco. Lo stesso che ospita Hel Esba, una sorta di ufficio amministrativo dove un tempo si pagavano le multe e utilizzato dall’Isis come centro di propaganda e indottrinamento specie per le donne come suggerisce un cartello all’entrata con scritto «vieto l’accesso agli uomini». Buttati in terra ci sono tanti «niqab» gli abiti neri che coprono le donne da testa a piedi. In una delle sale c’è una lavagnetta con disegnata una sagoma femminile e le frecce che indicano come ogni parte del corpo deve essere oscurata con gli opportuni veli. Hel Esba conserva anche testimonianze inquietanti, come quella che segnala il comandante Salem, una scritta su un muro: «Lo Stato islamico è qui e si espanderà, con l’aiuto di Allah e nonostante gli infedeli, conquisteremo Roma».

Questi i piani su cui stava lavorando la cupola della centrale libica di Abu Bakr al Baghdadi, che emergono evidenti man mano che i combattenti libici fedeli al Governo di accordo nazionale guadagnano terreno battendosi quartiere dopo quartiere, casa per casa. E con una resistenza spinta al martirio da parte degli jihadisti pronti a scagliare come arieti kamikaze alla guida di autobomba. Come il furgoncino che per giorni è rimasto al centro di Abu Faraa, all’interno del quale il kamikaze giaceva riverso sul volante centrato da un cecchino libico. Sul pickup una quantità di esplosivo e bombole tale da far saltare un edificio.

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L’appello all’Italia  

Armi di distruzione dinanzi alle quali i combattenti libici rispondono con coraggio e forza ma talvolta con mezzi limitati e con la sensazione di essere lasciati a loro stessi dagli alleati occidentali, Italia compresa. «Ci hanno dato giubbetti ed elmetti, niente più», rivela un alto ufficiale delle katibe, chiedendosi perché l’Italia non tende una mano agli amici libici. Almeno con l’invio dei medici e dell’ospedale da campo promessi: «Le nostre strutture sono al collasso, abbiamo tantissimi feriti, la battaglia per la liberazione di Sirte deve essere vinta subito. Dovete aiutarci».

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