” L’appuntamento con il referendum è decisivo Se Renzi vince sarà padrone, se perde si apre uno scenario nuovo sul quale è molto difficile fare previsioni ”
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E’ MOLTA confusione in Europa e in Italia. Politica ed economica. Ma poiché da almeno dieci anni il mondo intero e non soltanto l’Occidente, che è casa nostra, sta attraversando una depressione che ricorda periodi altrettanto calamitosi, credo sia necessario cominciare dal secondo aspetto della crisi, cioè dall’economia.
Questa settimana le Borse, dopo una prolungata depressione, hanno registrato un miglioramento tuttavia lieve, ma non è questo un fenomeno di rilievo. La novità che riguarda in special modo l’Italia consiste in un improvviso mutamento della Germania, da una politica fin qui di costante rigore economico e finanziario ad una improvvisa e rilevante flessibilità. Questa parola ha ormai assunto vari significati, ma nella sua essenza consente un trasferimento di risorse in favore d’un Paese che ne ha urgente bisogno. Nel caso in questione in favore dell’Italia, che da mesi ne fa urgente richiesta con motivazioni che variano seguendo sempre nuove circostanze ma il cui obiettivo è comunque il medesimo: disporre di maggior denaro affinché la nostra economia riprenda fiato con conseguenze finanziarie, sociali e quindi anche politiche. Il presidente della Commissione di Bruxelles, Jean-Claude Juncker e il suo vice-presidente erano da tempo orientati in questo senso, ma la Germania si opponeva ed aveva perfino preso le distanze — sia pure in modo felpato — dalla politica espansiva della Bce.
Draghi da quell’orecchio non ci sentiva, ma se il freno nei suoi confronti fosse stato tenuto troppo a lungo avremmo probabilmente assistito ad uno scontro a dir poco drammatico. Per fortuna anche questo aspetto della questione è stato attenuato, anzi è scomparso del tutto, almeno per ora. La flessibilità, per tornare al nocciolo della questione, ammonta a circa 26 miliardi di euro, motivati dal nostro governo da tre capitoli di spesa: la necessità di spostare di un anno (dal 2016 al 2017) la riduzione del deficit rispetto agli impegni assunti con la Commissione; le crescenti spese per salvare gli immigrati che arrivano dal mare; le operazioni di accoglienza, accertamento di identità e motivazioni della loro fuga dai Paesi di origine, con annesse le spese derivanti dagli eventuali accordi con quei Paesi per riaccoglierli. Insomma una sorta di bonifica sociale da effettuare su una vasta zona sub-sahariana.
A fronte di questi problemi e della flessibilità che ne è derivata, ci sono però alcune condizioni poste dalla Commissione e dalla Germania ed anche per sua propria iniziativa da Mario Draghi: leggi sul lavoro che incentivino più efficacemente della tanto nominata panacea del Jobs Act; trasferimento di entità consistenti dalle imposte sul reddito a quelle sul patrimonio; riversare tutte le risorse disponibili ad una diminuzione (sempre promessa ma mai realizzata) del debito pubblico e infine una consistente diminuzione del cuneo fiscale per quanto riguarda la parte contributiva delle imprese private. Quest’ultima ricetta l’avevamo più volte sostenuta da almeno un paio di mesi su queste pagine, ma il governo ha fatto orecchio da mercante rinviando al 2017 e non certo per importi significativi. Eppure sarebbe questa la vera panacea per nuovi investimenti e nuovi e veri posti di lavoro, con relativo aumento della domanda.
Questa è dunque la situazione attuale che Padoan dovrà trasformare nella legge di stabilità del 2017 in cui dovrà fornire le prime anticipazioni a Bruxelles entro il prossimo giugno. Il tempo è breve, il lavoro è molto. Ma nel frattempo che cosa sta accadendo nella nostra economia?
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I problemi sono tre: il trasferimento del grosso delle imposte dal reddito al patrimonio. C’è di mezzo la riforma del catasto e non è uno scherzo da poco; l’andamento del Pil e la diminuzione del deficit entro il 2017 dal 2,4 all’1,8 per cento, l’emersione del mercato nero di imprese e lavoratori. Su quest’ultimo punto s’innesta ovviamente la lotta alle mafie e la corruzione che ne deriva. Qui cioè non si tratta più solo di economia ma entra in ballo anche la politica.
Ma entra in ballo anche il nostro rapporto con l’Europa perché qui la nostra capacità di negoziato si affievolirà di molto. La Commissione in questa occasione ha decisamente favorito l’Italia, mentre ha penalizzato economicamente sia la Spagna sia il Portogallo ed ha aiutato la Francia col contagocce, in una fase per lei socialmente molto difficile. Teniamo presente queste differenze di trattamento. La Merkel l’ha addirittura esplicitamente motivata: l’Italia — ha pubblicamente dichiarato — è uno dei Paesi fondatori dell’Europa e dobbiamo tenerlo presente. Non è un riconoscimento da poco, ma su quella strada dobbiamo proseguire, che la Merkel sia d’accordo o anche non lo sia. Noi siamo stati in tre diverse epoche fondatori dell’Europa: ai tempi di Cesare e poi da Augusto ad Adriano; nel Rinascimento tra il Quattrocento e i primi del Seicento, infine nell’Ottocento non però da soli ma in buona e solida compagnia. Ho già ricordato queste verità storiche qualche domenica fa, ma le ricordo ancora perché credo sia fondamentale. Spetta a Renzi muoversi su questo terreno. Capisco le imminenti elezioni amministrative; capisco molto meno il referendum di ottobre, ma questi appuntamenti elettorali non possono relegare in secondo o terzo piano quello di diventare uno dei protagonisti della politica europea.
La Germania ha detto che se le regole imposte dalla Commissione non sono rispettate dai vari Paesi membri, per i loro interessi nazionali, questi saranno giudicati in modo definitivo dal Consiglio dei ministri europeo, cioè dai 28 Paesi che lo compongono. Più nazionalismo di così. E chi dovrebbe combattere il nazionalismo dei disobbedienti? Ma dov’è la logica di tutto questo? Solo un’Europa federata può stroncare il nazionalismo dei singoli governi. Ed è questa la bandiera che Renzi deve impugnare. Se punta tutto sulle elezioni e sul referendum potrà avere cattive soprese e quand’anche fossero buone rafforzerebbero il suo potere personale. Per farne che cosa? Questa è la domanda cui deve rispondere. A se stesso, alla propria coscienza politica prima che agli altri.
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I candidati delle principali città che voteranno il 5 giugno sono di modesta levatura. Difficilmente trascineranno le folle al voto. Renzi ha detto che si farà in quattro e ne ha certamente la capacità, ma Grillo anche lui ce l’ha, anche la Meloni e Salvini. Berlusconi l’aveva un tempo, anzi era imbattibile, e tuttavia Prodi lo sconfisse ben due volte su quattro. Oggi comunque Berlusconi è muto. Tutt’al più si occupa del Milan e di Mediaset, di politica no, a meno che…
Molti, che hanno buona memoria, pensano che negli ultimi giorni farà un colpo di scena. Conoscendolo abbastanza lo penso anch’io, ma il colpo di scena per esser tale deve sorprendere, e deve anche avere qualche chance di successo. Quella che avrebbe l’improvvisa alleanza con la Meloni e quindi anche con Salvini. La destra riunita potrebbe anche andare al ballottaggio con la Raggi o con Giachetti, e può persino vincere. Io penso questo. Certo non la voterò, ma molti invece sì. Giachetti è un radicale passato da tempo a Renzi ma ebbe gli insegnamenti da Pannella. Immagino che abbia seguito con commozione più che comprensibile le varie camere ardenti, piazza Navona, funerali laici, sfilate e celebrazioni. Pannella però di politica vera e propria non sapeva niente, non era quella la sua missione. Quindi Giachetti ha solo Renzi come maestro. Tuttavia il suo nome è pressoché sconosciuto ai romani. Spero bene per lui ma non sono ottimista. In realtà, tra le varie città in lista ce n’è una soltanto dove il candidato, che ha già governato la città con buonissimi risultati ed ora si è riproposto, è Fassino a Torino. Forse, così spera lui e spero anch’io, ce la farà al primo turno. Se dovesse affrontare il ballottaggio con i Cinque Stelle la battaglia non sarà facile, ma forse la vincerà. Le altre piazze, salvo Merola a Bologna, hanno tutte candidature modeste poiché modesta è la classe politica attuale. La speranza è nei giovani, sempre che abbiano voglia di politica.
E poi c’è il referendum. L’appuntamento è decisivo. Se Renzi vince sarà padrone, se perde si apre uno scenario nuovo sul quale è molto difficile fare previsioni. Personalmente — l’ho già detto e scritto — voterò no, ma non tanto per le domande del referendum quanto per la legge elettorale che gli è strettissimamente connessa. Se Renzi cambia quella legge (personalmente ho suggerito quella di De Gasperi del 1953) voterò sì, altrimenti no. E immagino che siano molti a votare in questo stesso modo. Pensaci bene, caro Matteo; se anche vincessi per il rotto della cuffia sarai, come ho già detto, un padrone. Ma i padroni corrono rischi politici tremendi e farai una vita d’inferno, tu e il nostro Paese.
Se Renzi diventerà padrone sarà per tutti un disastro EUGENIO SCALFARI
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