La schermitrice Di Francisca sul podio di Rio con il vessillo comunitario
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l premier Matteo Renzi parla di “minacce inedite” ai militari impegnati nelle missioni all’estero, Elisa Di Francisca conquista l’argento del fioretto alle Olimpiadi e festeggia sventolando la bandiera dell’Unione Europea contro il terrorismo. Sono due volti dell’Italia in guerra contro il jihadismo di Isis. Renzi sottolinea l’importanza dello strumento militare per garantire la sicurezza nazionale mentre Di Francisca “è una dimostrazione di orgoglio europeo a Rio”, come scrive Gianni Riotta nell’articolo che vi proponiamo:
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Un fioretto e una bandiera, Elisa riunisce l’Europa GIANNI RIOTTA
Finora solo il primo impegno è stato mantenuto, Elisa vive a Jesi, patria della scherma con Vezzali e Trillini, una storia d’amore a distanza con un producer tv («mi scoccia non averlo sempre tra i piedi… un fidanzato aiuta a sistemare gli armadi»), ma ancora fuma e, a 33 anni, il bambino si fa attendere.
La bandiera europea era già un sogno quando sfilano gli atleti ai Giochi Invernali del 1992 ad Albertville, e Romano Prodi, presidente europeo, auspica dopo Atene 2004: «Spero che a Pechino 2008 gli Stati europei sfilino insieme, con la bandiera dell’Unione Europea accanto a quelle nazionali» vantando le 82 medaglie d’oro vinte dagli atleti Ue, più di Usa, Cina e Russia. Il tempo vola e da quelle speranze l’Europa si è ormai ritratta. Elisa Di Francisca accetta il vessillo offerto inorgoglita dai successi e dall’unità del vecchio, litigioso, continente da cui la Gran Bretagna è appena uscita. Con franchezza, la poliziotta De Francisca spiega che il gesto è omaggio alle vittime del terrorismo fondamentalista islamico: «L’Europa esiste ed è unita contro il terrorismo. Ho portato la bandiera europea sul podio per le vittime di Parigi e Bruxelles. L’Isis? Il terrorismo non deve vincere. Dobbiamo essere uniti e non dobbiamo darla vinta al terrore. Non diamola vinta a chi vuole farci chiudere dentro casa».
La campionessa non è mai banale, né è nuova a posizioni pubbliche coraggiose, ha parlato delle violenze subite dal suo compagno quando era a scuola, «da una spinta si passa a uno schiaffo e poi…», mentre dal sito «La Mia Africa» documenta la missione umanitaria del 2012 in Kenya con la onlus Intervita. Le parole con cui accompagna il gesto di accettare la bandiera Ue sul podio sono nitide, «Non darla vinta ai terroristi Europa!», ma subito si apre la gara a travisare, edulcorare, strumentalizzare. La ministro degli Esteri europea Federica Mogherini, con senso della misura, twitti da @federicamog «La bandiera dell’Europa, gli ideali della meglio gioventù. Brava due volte», ma non basta e la portavoce della Commissione Europea, Mina Andreeva, non resiste a tradurre la vicenda in pomposo Euroburocratese: «Il ruolo positivo dello sport che permette di costruire network e dialogo» tra le diverse culture, la Ue «celebrerà lo sport e il suo valore per incoraggiare il rispetto reciproco ed il dialogo». Il presidente del Parlamento Ue Martin Schulz elogia Elisa «per il messaggio di unità».
Dialogo? Network? Unità? Fiutata l’aria, la Di Francisca prova a chiarire il messaggio, già nitido a chi ascolta: «Viviamo nella paura, negli aeroporti e negli ascensori. C’è meno Europa di prima, ma possiamo convivere tutti insieme con amore. Il mio è stato un atto di amore, mi è venuto dal cuore. Non c’è un messaggio politico ma solo di coscienza: vogliono che abbiamo paura uno dell’altro, noi invece dobbiamo rispondere con l’amore. Ci teniamo alla vita, per chi crede è un dono di Dio da rispettare… non possiamo fare il «loro» gioco. Ci vogliono antagonisti, rivali, vogliono che abbiamo paura uno dell’altro, provano ad infondere terrore…». Chiaro, no? Elisa ha accettato di buon grado la bandiera per raccogliere gli europei in ricordo delle vittime di Parigi e Bruxelles. Punto. Inutile trascinarla in un petulante talk show su Brexit ed euro, tra europeisti inamidati e anti-Ue fracassoni. Elisa Di Francisca non se la prenda, i velocisti americani Smith e Carlos salutarono col pugno chiuso dal podio olimpico 1968 e finirono fischiati dai messicani e squalificati dalla Federazione per il loro coraggio. «Non celebravamo il Potere Nero – scrive nelle sue memorie Tommie Smith – ma i diritti civili ed umani». Li capì l’altro atleta sul podio, il bianco australiano Peter Norman, che indossò un distintivo dell’Olympic Project for Human Rights in solidarietà contro il razzismo e aiutò ad organizzare la protesta. Tornato a casa si vide insultato da politici e giornalisti, cadendo in depressione. Al funerale di Norman, ottobre 2003, la bara venne vegliata da Smith e Carlos e il Parlamento australiano gli porse finalmente le scuse. Sono serviti 35 anni per capire quel gesto, vedremo quanti ce ne vorranno per intendere bene Elisa Di Francisca. Intanto brava, e forza!
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