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Castellammare di Stabia

Racket, riciclaggio, un conto in Svizzera: la ricetta dei D’Alessandro per schiavizzare l’economia stabiese

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È terrificante l’allarme dell’Antimafia: gli imprenditori stabiesi sono schiavi della legge del racket, pagano sistematicamente il pizzo, convivendo in modo omertoso e silenzioso con la camorra.

La situazione generale

I

l quadro dipinto dall’inchiesta Cerbero è chiaro: la città è schiava della camorra.

L’indagine che ha coinvolto 35 affiliati al clan D’Alessandro indagati per associazione a delinquere, traffico di droga, racket e riciclaggio, racconta la capacità della cupola di Scanzano di insinuarsi nella politica e dell’enorme potere economico che i boss hanno accumulato negli ultimi 30 anni.

Una parte consistente degli atti riguarda decine di episodi estorsivi commessi dal 2011 fino al 2015.

Un fenomeno che per gli inquirenti sarebbe molto più esteso di quello che si evince dai documenti.

Dalle indagini si nota come, nonostante diversi esponenti di rilievo assoluto del clan siano dietro le sbarre, i D’Alessandro godano ancora dell’assoluto controllo del territorio.

Potere esercitato grazie all’ingresso delle nuove leve e dei suoi soldati storici che girano ancora a piede libero.

Questi riescono ad esercitare il loro dominio anche grazie al fatto che:

” La popolazione locale, consapevole delle violenze e delle minacce perpetuate in passato vive in uno stato di assoggettamento.

I commercianti pagano il pizzo regolarmente senza opporsi, così gli uomini del clan non devono quasi mai ricorrere all’uso della violenza.

Paura, sottomissione, rispetto. Tanti modi per chiamare quell’intreccio terrificante che ormai lega i commercianti della città delle acquee maniacalmente alla Camorra.

Se volessimo dare un titolo a questo stralcio del dossier Cerberus è “Connivenza”.

Connivenza che si evince dalle intercettazioni telefoniche nelle quali gli imprenditori che pagano la protezione chiederebbero al clan di intervenire nei confronti di clienti che non estinguevano i propri debiti o di dipendenti che rubavano soldi dalla cassa.

È proprio il caso di un ristoratore stabiese che avrebbe chiamato il clan per denunciare i camerieri che avevano rubato del denaro dalla cassa oppure quello di un titolare di un bar in centro che avrebbe chiamato Gianfranco Ingenito (factotum di Michele D’Alessandro, classe 92) poiché un cliente non avrebbe voluto pagare il conto.

In un altro paese un imprenditore avrebbe chiamato le forze dell’ordine, ma non a Castellammare, non nella città stritolata da ben 5 sodalizi criminali. Un comune che per l’ordinamento amministrativo è una città di provincia ma che, per la DIA, diventa una delle capitali europee del crimine organizzato.

Un sistema ben definito e collaudato, che grazie al radicamento capillare acquisito negli anni è arrivato ad infiltrarsi in tutte le branche dell’economia locale, controllando e sottomettendo mediante la legge del racket una buona fetta degli imprenditori stabiesi.

La camorra interviene in aiuto di “chi è a posto” ossia di chi paga al pizzo, sostituendosi allo stato, sfruttando la sua totale assenza, offrendosi come garante e detentore della giustizia e dell’ordine pubblico offrendo protezione.

Il micropizzo

Vedi che ti porto un imbasciata da Michele e della sua famiglia, se per Pasqua puoi fare un pensiero”

Queste le parole dell’aguzzino alla vittima di turno.

Il nuovo retroscena inquietante che emerge da “Cerberus” è il micro pizzo chiesto ai commercianti.

Infatti la richiesta economica in questo caso è una cifra simbolica: 100 euro.

Un “istituto” che il clan avrebbe creato non tanto per un guadagno per la cosca che fonda i suoi introiti criminali sul traffico di droga, ma per marcare il territorio e far sentire ai cittadini che in città esiste solo un potere, quello della camorra.

Il generale di questa strategia, all’epoca ventenne, sarebbe Michele D’Alessandro, classe’92, omonimo del nonno fondatore del clan negli anni ’80.

Il boss si sarebbe servito di Gianfranco Ingenito, suo braccio destro e factotum, come esecutore materiale per la raccolta del pizzo.

Per gli inquirenti si tratterebbe già di una figura di spicco del clan, infatti lo ritroviamo nell’inchiesta, insieme all’Ingenito, coinvolto come protagonista anche nell’affare del traffico di stupefacenti.

Il racket pagato offrendo gratuitamente i propri servizi

Alcuni imprenditori pagherebbero la tassa alla camorra stabiese offrendo gratuitamente i propri servizi, piegandosi al volere del sodalizio scanzanese.

È il caso di un noto locale della movida in penisola sorrentina dove gli uomini del clan di Scanzano avevano un tavolo riservato tutte le sere. Fiumi d’alcool e litri di champagne offerti gratuitamente per pagare il conto alla camorra e ottenere la loro protezione.

È anche il caso dei concessionari delle banchine del porto di Castellammare di Stabia. Negli ultimi anni il settore diportistico si è sviluppato, infatti sono aumentate il numero di imbarcazioni di privati e di aziende di charter che organizzano escursioni nel golfo di Napoli.

Questi attraccano le loro imbarcazioni nei moli stabiesi, pagando in media una cifra che si aggira sui 6 mila euro annui.

Spesa che non tocca i D’Alessandro che si servirebbero di questo servizio gratuitamente.

A ciò si aggiungerebbe una quota mensile sui guadagni primaverili-estivi che gli imprenditori portuali verserebbero nella banca del crimine.

Ciò emerge in un episodio del 2013, finito agli atti del dossier Cerbero, quando un imprenditore stanco dalle continue richieste del clan si sarebbe rivolto alle forze dell’ordine.

Egli raccontò di come nonostante già prestasse gratuitamente l’attracco ai propri pontili gestiti in concessione ai D’Alessandro, un rampollo del clan gli inoltrò una nuova richiesta di pizzo.

Nonostante abbia fatto il nome dell’esattore e indicato alle forze dell’ordine di controllare le registrazioni delle telecamere per il riscontro di ciò che aveva affermato, al momento della formalizzazione della denuncia fece marcia indietro.

Secondo le parole del pentito Pasquale Rapicano, i titolari delle banchine subivano estorsioni anche dalla famiglia Fontana, operante nel quartiere dell’Acqua della Madonna e dalla famiglia Di Somma del quartiere di Santa Caterina.

Nella Fincantieri…

Fino a 10mila euro di estorsioni per le ditte dell’indotto che lavoravano in subappalto all’interno dello stabilimento Fincantieri.

A raccontarlo è sempre il super pentito Pasquale Rapicano.

L’ex killer nei suoi racconti fa riferimento ad un episodio del 2011: lui insieme ad un complice avrebbero estorto 10mila euro ad una ditta stabiese che negli anni è riuscita ad aggiudicarsi diverse commesse dal colosso friulano.

La cifra sarebbe stata consegnata in contanti dopo 4 giorni dalla richiesta e suddivisa tra i 2 esecutori dell’estorsione e Teresa Martone, vedova del padrino Michele D’Alessandro, defunto per infarto in carcere verso la fine degli anni ’90.

Da qui l’ordine dopo qualche giorno di lasciar in pace la ditta. Infatti secondo l’Antimafia, l’imprenditore stabiese per evitare ulteriori richieste estorsive avrebbe cominciato a garantire un mantenimento economico per la famiglia di Scanzano.

Sempre stando alle parole del Rapicano, il controllo della cosca sulle aziende che lavoravano in Fincantieri era totale.

Persino le ditte che prestavano il servizio mensa si dovevano piegare alla dura legge del pizzo.

In questo frangente ricompare il nome di Augusto Bellarosa, per Rapicano era lui che ritirava i soldi alle ditte che prestavano il servizio di ristoro.

Il Bellarosa è una figura di spicco per il clan in quegli anni, infatti lo ritroviamo protagonista anche nello scandalo che ha travolto l’ex consigliere PD Francesco Iovino (clicca qui per leggere l’articolo).

Per l’Antimafia era stato incaricato proprio dal boss al 41 bis Luigi D’Alessandro, figlio del padrino Michele, a gestire i suoi affari durante il periodo di detenzione.

Il riciclaggio

Uno dei metodi per riciclare i soldi provenienti dal racket era quello dell’acquisto delle vincite legate alle scommesse sportive.

Un sistema ben organizzato che coinvolgeva anche i titolari di bar e dei centri scommesse.

Infatti erano proprio gli imprenditori a rivolgersi, in caso di cospicue vincite, ai colletti bianchi della camorra addetti al riciclaggio, rischiando l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

I D’Alessandro quindi grazie a queste segnalazioni acquistavano i ticket vincenti ripulendo così il denaro sporco derivante da attività illecite, come la richiesta del pizzo.

La criminalità organizzata necessita continuamente di modi per giustificare i loro guadagni illeciti, infatti per l’acquisto di tali vincite i D’Alessandro pagavano ai fortunati un indennizzo sul totale della vincita anche del 5 per cento.

Il conto bancario in Svizzera

l’Antimafia ha sempre avuto il sospetto che una parte del tesoro dei D’Alessandro fosse nascosta in conti all’estero.

Dall’indagine Cerberus arriva una mezza conferma di una presenza di un conto bancario in Svizzera intestato ad un prestanome.

Un cospicuo tesoretto che verrebbe usato dal clan solo in casi di estrema emergenza.

Era il 2015, il sodalizio viveva un periodo di crisi economica.

Sarebbe stato lo stesso Luigi D’Alessandro dal carcere, durante un colloquio ad indirizzare i familiari a contattare Antonio Schettino (anche lui indagato) perché evidentemente sapeva dove il boss aveva nascosto i soldi prima del suo arresto.

La famiglia, quindi, riprese i contatti con Schettino con l’obiettivo di recuperare il denaro per finanziare le attività illecite del clan.

Infatti nel marzo 2015 gli investigatori intercettarono una telefonata tra La vedova Martone e la nuora Rosaria Iovine nella quale la moglie del boss al 41 bis avrebbe parlato di un resoconto di Schettino:

“Quello che dobbiamo fare, quello facciamo. Io li metto nel conto, nel conto svizzero.”

Da qui un indizio decisivo per gli inquirenti dell’esistenza del conto bancario.

Il giorno seguente la Iovine viene intercettata in una telefonata con Antonio Schettino che le riferisce che il giorno seguente sarebbe andato a “prendere le paparelle.” Un chiaro riferimento ai soldi per finanziare gli illeciti dei D’Alessandro.

Da queste ultime indiscrezioni il sospetto dell’esistenza di un conto bancario dei D’Alessandro in un paradiso fiscale appare fondato.

 

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A cura di De Feo Michele / Redazione Campania


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