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Nessuno immaginava che ci potesse essere anche una realpolitik di papa Francesco”, scrive in un editoriale Gian Enrico Rusconi, che commenta le parole pronunciate dal pontefice in Myanmar (Birmania). “Parole ineccepibili. Ma fortemente indebolite dall’intenzionale assenza del nome identificante il popolo Rohingya, che da mesi la stampa internazionale descrive vittima delle persecuzioni del governo birmano, contro ogni diritto civile e umano”.
In Birmania il Papa tra fede e realpolitik
Le parole pronunciate dal pontefice in Myanmar/Birmania sono ineccepibili.
Ma sono state fortemente indebolite dall’intenzionale assenza del nome identificante il popolo (o etnia) Rohingya, che da mesi tutta la stampa internazionale – compreso «L’Osservatore Romano» – documenta che viene perseguitata dal governo birmano, contro ogni diritto civile e umano.
Le parole del papa sono state chiare ed esplicite in termini di principio e perfettamente comprensibili per quel mondo civile (non solo occidentale) che il pontefice stesso frequentemente fustiga. Ma i suoi diretti interlocutori erano e sono interessati esclusivamente a che i Rohingya non fossero nominati nel suo nobile discorso sullo «stato di diritto» e «un ordine democratico che consenta a tutti, nessuno escluso, di offrire il suo legittimo contributo al bene comune, per costruire un ordine sociale giusto, riconciliato e inclusivo». Naturalmente si dirà che «a buon intenditore bastano poche parole». Ma nel caso birmano non c’è proprio chi vuole intendere…
Quella di Bergoglio è una concessione nominalistica per poter dire con maggiore libertà tutte le altre cose importanti? Ma che cosa c’era di più importante da dire in Myanmar/Birmania? È il costo da pagare alla politica «impegnata per ripristinare la pace»? Ma è costo che rischiano di pagare proprio i Rohingya, cancellati nella loro esistenza e tragedie concrete da una evocazione generica e indistinta.
Questi interrogativi valgono proprio per una personalità attenta e tutt’altro che ingenua come Bergoglio. È singolare che abbia accettato di fare questa concessione nominalistica lui che con tanta ironia critica gli scribi e i farisei dei vangeli, che badano alle parole e non alla sostanza dei comportamenti. Forse ha temuto che un suo atteggiamento «imprudente» mettesse a repentaglio la piccolissima minoranza dei cattolici.
Ma non si può neppure escludere che Bergoglio abbia ravvisato nella situazione politica birmana analogie con la situazione che ha conosciuto personalmente e direttamente in Argentina durante il periodo del predominio dei militari. E quindi ritenga di sapere come ci si debba o si possa comportare.
Probabilmente nelle prossime ore a questi dubbi si daranno molte e differenti risposte . Ma mi chiedo se non siamo dinanzi anche ad una sottile evoluzione della personalità di Bergoglio, che nel suo attivismo si scontra sempre più duramente con la realtà.
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