Il segretario Pd deve superare i vecchi contrasti e formare una squadra di prima scelta. Tre nomi sono indispensabili: Prodi, Letta e Veltroni
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GNI giorno che passa aumentano le discussioni su Macron. Più che su Trump, più che su Putin e su Erdogan. E non parliamo di Angela Merkel e tanto meno di Renzi. Chi è Renzi? Il signor Nessuno. È Macron che detta legge. Piace e dispiace, non solo sui punti di vista ma perfino secondo i giorni e soprattutto i suoi punti di vista si alternano sui giornali e nei talk show televisivi. Ma perché? Vi ricordate De Gaulle? Era un ufficiale francese di scarso peso durante l’ultima guerra mondiale. Dopo la sconfitta di Dunkerque riparò in Inghilterra dove nessuno si occupò di lui, salvo qualche pari grado inglese. Poi ritornò in Francia. Guidava una divisione francese ed ottenne di rientrare a Parigi per primo: questione di effetto pubblicitario. Ma da allora crebbe in Europa di giorno in giorno e il gollismo diventò addirittura un partito che ispirò la storia di Francia e d’Europa anche dopo la sua morte. Macron è un gollista? Per certi versi no, ma per altri sì. Dopo dirò quella che può sembrare una bestemmia storica: il gollismo risale alla politica di Richelieu, di Mazzarino e del Re Sole, Luigi XIV. E Macron fa parte di quella tradizione che ha mezzo millennio di storia. Cerchiamo di capir bene: la Francia è la Francia e da mezzo millennio vuole identificarsi con l’Europa. Col mondo no, con l’Europa sì. Perciò stiamo molto attenti al nuovo presidente francese.
Il problema attuale è l’Africa, anche per la Francia che ha sempre controllato la costiera mediterranea africana, da Tobruk a Ceuta. Naturalmente la costiera africana riguarda anche l’Italia e questo profila lo scontro in atto: Macron vuole trattenere i migranti nell’Africa dalla quale fuggono e cerca di mettere insieme Tripoli e Bengasi per un accordo negoziato a Parigi. L’Italia di Gentiloni e di Minniti vuole invece che l’Africa cresca in popolazione e in investimenti italiani, europei, americani, che rinsanguino i migranti fuggitivi, offrano loro lavoro e reddito determinando un movimento inverso rispetto a quello francese: non sono i rifugiati ad essere di nuovo chiusi nei paesi d’origine, ma piuttosto tecnici, capitalisti privati e pubblici internazionali a trasferirsi in Africa per pilotarne lo sviluppo economico e sociale.
Qui si confrontano due governi: Francia e Italia, Macron e Gentiloni-Minniti. Al di là delle apparenze, delle strette di mano e dei reciproci ringraziamenti, la realtà è questa. Qui cade opportuna la domanda: qual è la presenza di Renzi in questa vicenda? È assente o presente? E la sua presenza è concreta oppure soltanto figurativa, una sorta di “Paese dei campanelli” che serve soltanto a far diventare cantati i talk show dei vari Mentana, Gruber e chiunque altro?
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Ho parlato recentemente con Renzi, non del tema libico-africano che era solo nello sfondo, ma dell’Italia e dell’Europa, o meglio di Renzi e dell’Europa nelle sue varie posture economiche, sociali, politiche. Ecco che cosa ne ho ricavato, detto in parole povere: Renzi sente Macron come l’avversario. Non è soltanto una valutazione politica, ma personale: Macron occupa la scena molto più di Renzi e questo per Matteo è intollerabile. Ecco perché ha deciso di aspettare la fine della legislatura prima di affrontare la competizione elettorale e tornare alla presidenza del Consiglio: deve avere una vasta forza politica per affrontare il rivale francese e deve essere una forza non solo vasta, ma coesa e qualificata, della quale lui sia la guida riconosciuta. Di centro-sinistra. Attenzione: prima viene la parola centro e poi sinistra. Se si scrive col trattino tra le due parole, quel “centro” acquista maggior peso; senza trattino è una compagine unificante che non dovrebbe consentire una sinistra dissidente, ma una classe dirigente unica, che esamina i progetti, ne discute liberamente, ma alla fine trova una soluzione condivisa e agisce di conseguenza.
Ho più volte richiamato da questo punto di vista l’esperienza del Partito comunista italiano ai tempi degli anni Cinquanta dello scorso secolo, fino agli anni Ottanta. Il comitato centrale, insediato dal Congresso nazionale, era il gruppo storico che governava il partito. Spesso, anzi quasi sempre, le discussioni e le analisi erano diverse e contrastanti: Ingrao non la pensava mai come Amendola, Longo aveva un’altra visione rispetto a Berlinguer, Napolitano rispetto a Reichlin e così via; ma alla fine il gruppo dirigente trovava la soluzione e il partito si muoveva compatto, riunito da due elementi: l’ideologia marxista e la classe operaia.
L’attuale classe dirigente del Pd, che ha credibilità, si compone di cattolici democratici e di sinistra marxiana, uniti insieme; non può dar vita ad una sinistra-sinistra ostile al partito e a sua volta frazionata in una decina di gruppetti che nel loro insieme non pervengono neppure al 10 per cento. Questa situazione va superata ed è a Renzi che spetta di imporlo. Deve avere una squadra di primaria scelta alla quale deve dimostrarsi sostanzialmente obbligato, superando vecchi ed aspri contrasti dei quali deve assumersi la responsabilità e il vivo desiderio di superarli. Se non si comporterà in questo modo il partito pronto alle nuove e assai difficili incombenze nazionali ed europee non ci sarà e se raggiungerà un 25 per cento, con numerosi contrasti interni, diventerà ancor più friabile. In quel caso si profilano alleanze spurie con la destra berlusconiana e il relativo fallimento di un Capo che guarda solo se stesso. Per far questo bisogna avere alle spalle mezzo millennio di storia politica nazionale. Noi non ce l’abbiamo. Quella culturale sì, anche più antica, ma non politica. Macron ha l’una e l’altra a sua disposizione e per questo è imbattibile.
La classe politica che Renzi deve mobilitare l’ho indicata con alcuni scenari già due o tre volte indicati in precedenti miei interventi, perciò li condenso in tre nomi, uno più difficile dell’altro ma egualmente indispensabili: Enrico Letta, Romano Prodi, Walter Veltroni. A fianco a questi ce n’è una trentina d’altri nomi, a cominciare da Gentiloni e da gran parte del suo governo, Minniti in testa.
Una squadra così, se Renzi la mobilita non per amor suo ma per costruire una politica riformatrice e attuarla, sarà un risultato determinante per l’Italia e per l’Europa. Diversamente torneremo a Enrico IV, Re di Francia e di Navarra e a suo nipote, il Re Sole, di cui saremo una pedina nello scacchiere dominato dai cavalli, dalle torri, dagli alfieri con il Re e la Regina. Partita chiusa, caro Matteo; una partita così è perduta in partenza. Viene in mente il film Borsalino: anche in quel caso sembrava vinta e invece fu decisamente perduta.
vivicentro.it/editoriale / Repubblica
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