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Letta vs Renzi: lotta sulla mutazione genetica del PD

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a tempo – ricorda Federico Geremicca nell’editoriale – si accusa Renzi di voler trasformare il Pd in un movimento personale. “Dalla scissione subita l’inverno scorso fino alla composizione di queste liste elettorali, è come se il Pd fosse stato sottoposto ad una sorta di profonda mutazione genetica”.

L’ultima sfida per creare il nuovo partito

ROMA – Sono anni – in pratica dal suo avvento alla segreteria del Pd (dicembre 2013) – che Matteo Renzi è inseguito da un velenosissimo sospetto: quello di voler trasformare il Partito democratico in qualcosa di profondamente diverso, addirittura in un «movimento personale», al quale è stato dato – per comodità – il nome di PdR (Partito di Renzi). Il sospetto, diciamolo subito, in questi anni è apparso più un utile strumento di polemica e propaganda che il prodotto di una oggettiva analisi politica. Questo – però – fino a ieri: giorno in cui il Pd ha ufficializzato le proprie liste elettorali.

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Qui non è in questione, naturalmente, né la qualità dei nomi presentati e nemmeno il diritto di un segretario di partito a plasmare i gruppi parlamentari, diciamo così, in modo da garantirne la tenuta sulla linea politica (e di governo) scelta. Quel che può essere oggetto di discussione, invece, è il profilo che avrà il Pd dopo il voto: e dopo un metodo di selezione dei nomi in lista che ha prodotto nuove e profonde ferite sul corpo del Partito democratico.

Una annotazione appare, a questo punto, evidente: nel giro di un anno – e cioè dalla scissione subita l’inverno scorso fino alla composizione di queste liste elettorali – è come se il Pd fosse stato sottoposto ad una sorta di profonda mutazione genetica. «Non è più un partito di sinistra», ha accusato ieri Pietro Grasso, tirando acqua al mulino di Liberi e Uguali. La sentenza è forse azzardata: ma tornare a parlare oggi di PdR, piuttosto che di Pd, non può più esser considerato solo un artificio polemico.

Non è soltanto questione di assenze: il fatto, cioè, che i due ultimi segretari del partito (Bersani ed Epifani) militino altrove, che molti altri co-fondatori li abbiano seguiti o che perfino i due padri nobili del Pd (Prodi e Veltroni) siano in posizione defilata o addirittura critica. È soprattutto il modo in cui si è supplito a queste defezioni a meritare una riflessione: un gruppetto di fedelissimi (nel partito e nelle liste) imposti con la forza dei numeri e senza – di fatto – alcun confronto. Qualcuno ne ha potuto avere purtroppo conferma nelle pesanti notti del Nazareno trascorse a sistemare nomi e cognomi in collegi e listini, durante le quali solo Lotti, Boschi e Bonifazi hanno avuto accesso alle stanze del segretario.

Nemmeno di fronte ad un appuntamento delicato e decisivo come le elezioni, insomma, Matteo Renzi ha cambiato il suo stile di direzione: avanti tutta, costi quel che costi. Era accaduto dopo il referendum del 4 dicembre e dopo le tante sconfitte elettorali subite (dalla Liguria alla Sicilia, fino a Roma e Torino). I fatti e il tempo, dunque, non hanno portato consiglio: il «noi al posto dell’io», l’esaltazione della «squadra a più punte del Pd» e la promessa collegialità, sono rapidamente tornate in soffitta per lasciar spazio al solito stile accentratore.

Ma Renzi può esser, a modo suo, comunque soddisfatto: infatti, controllerà senza problemi il futuro gruppo parlamentare: proprio come era per Bersani all’inizio della tormentata legislatura appena conclusa… Quel che è certo, è che se le elezioni dovessero andar male, lo scontro nel Pd sarà durissimo. E proprio da quella resa dei conti potrebbe nascere – perfino ufficialmente – quel PdR fino a ieri solo sospettato e che oggi – invece – appare in piena e inevitabile gestazione.

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