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L’epica della parola: Un’analisi linguistico-testuale dei discorsi di Zelensky

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Il primo testo letterario dell’Occidente narra una guerra. I canti sono in lingua greca e in forma di esametri. La prima parola del poema è μῆνιν, ira – quella di Achille: una questione privata a partire da cui si avvia la conclusione di una vicenda bellica. Da Achille a Zelensky.

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ggi l’Europa ha una nuova guerra. Non è raccontata in esametri, ma in immagini, video e in una lingua slava spesso confusa con un’altra. È l’ucraino, riguardo cui è difficile rispondere a qualsiasi domanda, specie se si tratta della sua genesi. Più si indietreggia nella sua storia linguistica, meno è possibile trovare riscontro con i fattori caratterizzanti della sua forma recente. È vero specialmente se si ripercorrono a ritroso i suoi testi, fino almeno al diciassettesimo secolo: a quel punto, la lingua si dissolve in quella che gli specialisti chiamano “lingua slava comune”. E, se è indubbio che ci siano dei fattori di continuità dalla fase di “lingua slava comune” a quella di oggi, ne consegue che una vera e propria data di nascita dell’ucraino non possa essere di natura storico-linguistica. Spesso, infatti, è politica. Politica è anche la questione del nome della capitale Kyiv, da cui la pronuncia dalla patina russa Kiev, che è come l’abbiamo sempre chiamata.

La voce di chi ci ha insegnato a pronunciare il nome della capitale è quella del capo del governo ucraino. Dopo aver rilasciato il video in cui rifiuta l’estrazione dal Paese offerta dall’America, Volodymyr Zelensky non ha più interrotto il dialogo con la sua popolazione. Ogni giorno, dal primo dell’invasione, sul suo profilo appaiono almeno due video. Bastano quelli a spazzar via l’immagine del presidente-per-finta e a prenderlo molto, molto seriamente. Zelensky, dall’interpretare il ruolo di presidente di una serie tv in cui il modo per sconfiggere i suoi nemici politici era la pratica dell’onestà, propone alla sua popolazione e al mondo una visione molto specifica del conflitto. È una visione generata da presupposti etici, in cui la narrazione del reale si confonde con la narrazione stessa. E lo fa inquadrato a mezzo busto, con una t-shirt verde militare e le braccia scoperte.

Le fazioni sono chiare: da un lato il grande e libero popolo ucraino, dall’altro lo Stato invasore. Nei suoi discorsi, infatti, Zelensky evoca le immagini della città distrutta partendo da un attimo prima che la distruzione avvenga: gli edifici non sono distrutti, ma bombardati; lo stesso vale per l’aeroporto – colpito da un missile – della città di Vinnytsia. E se la città è “pacifica”, il missile che la colpisce è “brutale e cinico”: una polarizzazione di valori che coinvolge gli oggetti e ne distribuisce la semantica anche su chi di quegli oggetti si serve. Le città distrutte, “costruite da noi, dai nostri genitori e progenitori”, di  cui ora restano le macerie, sono le macerie di intere “generazioni di ucraini”. Insieme agli oggetti muoiono quelli che li costruirono, in una connessione semantica tra la terra e i suoi abitanti.

Nei suoi discorsi, Zelensky applica un’aggettivazione comune tra il popolo e lo Stato ucraino: “Free people of a free Country!”, in un vocativo di apertura, oppure: “Great people of a great Country!”, “Unbreakable people of invincibile Ukraine!”. E quest’invincibilità non si misura sulla base delle perdite dello Stato avversario, ma sulla tenuta morale che la popolazione invasa ha saputo contrapporre alle minacce di violenza. Dignità, gloria, rispetto: sono tre delle parole maggiormente usate in riferimento al popolo ucraino, ripetute così spesso da sembrare espressioni formulari – le stesse che definivano gli eroi dell’Iliade e ne imprimevano le caratteristiche nella memoria di chi quella storia la ascoltava.

Se nei discorsi di Zelensky oggetti, persone ed etica si fondono in una contrapposizione tra il bene e il male, il tutto è concentrato in un’unica metafora: “Even in complete darkness we see the truth. And we will fight until it darkens in our eyes. Because we are the warriors of light”. Luce da un lato, dall’altro un esercito d’uomini che, se ancora vivi, è fatto di terroristi. Se morti, trasmuta in “18-year-old, 20-year-old boys. Very young, almost children. Soldiers who were not even explained why they were going to fight. For what and why they are in a foreign land”. Improvvisamente simili alle vittime del partito opposto, vittime dello stesso Stato che ora decide di far guerra. È in questo modo, quindi, che il nemico diventa comune: “We are fighting for where the border will be. Between life and slavery. And this is not only our choice. The citizens of Russia are making exactly the same choice right now. These days. During these hours. Between life and slavery. Today. Tomorrow”.

Il presente e l’immediato futuro sono i tempi verbali che permettono di rispettare le unità aristoteliche di spazio e di tempo. Il futuro è qualcosa che il popolo ucraino ha già conquistato (“We have already gained our future”), ma il tempo dell’azione si costituisce di diversi elementi: la raccolta di fondi destinati alla ricostruzione, gli aiuti in arrivo per chi è rimasto, la forza e il senno di chi si oppone all’assedio. Il passato, invece, è totalmente destinato alla Russia. I verbi sono tutti al passato quando il presidente si riferisce alla necessità di combattere: “Citizens of Russia! For you, this is a struggle not only for peace in Ukraine! This is a fight for your country. For the best it had. For the freedom that you have seen. For the wealth that you have felt”. Alla mancanza di azione di oggi, corrisponderanno la povertà e la repressione di domani.

Alla partizione verbale nei tre tempi canonici si sostituisce, talvolta, una sospensione temporale. Al numero dieci si associa la continuità inspiegabile del tempo scandito dalla percezione umana. Non esistono albe né tramonti, il decimo giorno d’assedio “is like one infinitely long day. One infinitely long night”, che impedisce e annulla la veglia. È la tragedia che si svolge nel giro di un giorno, ma anche l’epopea dalla struttura potenzialmente illimitata nel tempo. È la disgregazione del tempo, insieme al luogo, insieme ai popoli, di una guerra figlia di altre guerre, narrata in una lingua più volte interrotta e ristabilita altrettante. In che lingua, quindi, ci parla l’uomo sotto i riflettori?

In un testo in ucraino di fiction di 300 parole, saranno presenti 8 parole in prestito dal polacco (entrati in uso nel sedicesimo secolo), 16 dal russo, 8 da altre lingue. I dati corrispondenti in un testo di non-fiction sono interessanti: 23 prestiti dal polacco, 9 dal russo, 72 da altre lingue. I testi di non-fiction, quindi, dal lessico meno controllato e più aderente all’uso commune, presentano un abbassamento drastico del numero di parole provenienti dal russo.

Se una narrazione assume un punto di vista narrativo comune e ben piantato nella coscienza del destinatario, è perché il messaggio passi attraverso pieghe della coscienza che non si pongono in superficie. Allo stesso modo, se due nazioni parlano la stessa lingua è perché in un certo punto della loro storia hanno avuto dell’esperienza in comune. Ma l’ucraino e il russo sono due lingue diverse. Gli scambi che possono avvenire sono solo quelli superficiali: il lessico, la fonetica, ma di certo non la sintassi, men che meno la morfologia. Ma le parole restano, e la percezione che siano mutuate da altre lingue si opacizza nella coscienza dei parlanti. È la loro, e che venga da un’altra parte non lo ricordano più.

Sono prestiti dal russo le parole “combattente” e “compagno”. È un prestito dal russo la parola “espropriazione”. La parola “terra”. E anche se la distinzione ai non-madrelingua può apparire assai complessa, un nativo non avrebbe difficoltà a dichiarare: questa parola la conosco perché la uso.

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Lorenza Sabatino / Redazione

 


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