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L’alleanza tra cosa nostra e stidda

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a Dda di Palermo ha chiuso l’indagine denominata Xydi a carico di 30 persone. Dalle investigazioni emerge l’alleanza tra mafia e stidda

La DDA (Direzione distrettuale antimafia) di Palermo ha chiuso l’indagine a carico di 30 persone, accusate a vario titolo di mafia ed estorsione. L’inchiesta nasce dall’operazione “Xydi” che, a febbraio scorso, portò all’arresto di boss e gregari delle famiglie mafiose trapanesi e agrigentine.

Tra gli indagati adesso anche il capomafia latitante di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, il boss agrigentino Giuseppe Falsone e il “postino” del padrino Bernardo Provenzano Simone Castello. L’indagine coinvolse anche l’imprenditore Giancarlo Buggea e la compagna Angela Porcello, avvocato, che a seguito dell’inchiesta, è stata cancellata dall’Ordine.

Ci eravamo occupati dell’operazione “Xydi” (2 Febbraio 2021 Agrigento, Trapani, Caltanissetta e Palermo, retata antimafia, con anche arresto di avvocata) quando il 2 febbraio c.a. i Carabinieri del ROS (Raggruppamento operativo speciale), con il supporto operativo dei Carabinieri del Comando Provinciale di Agrigento e l’ausilio dei Comandi Provinciali di Trapani, Caltanissetta e Palermo, del XII Reggimento “Sicilia”, dello Squadrone Eliportato Cacciatori “Sicilia” e del 9° Nucleo Elicotteri, diedero esecuzione ad un Decreto di Fermo di indiziato di delitto emesso dalla Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, nei confronti di 23 indagati, ritenuti a vario titolo responsabili di associazione per delinquere di tipo mafioso (cosa nostra e stidda), concorso esterno in associazione mafiosa, favoreggiamento personale, tentata estorsione ed altri reati aggravati poiché commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso. C’era anche la pianificazione di due omicidi che non si verificarono per l’intervento delle Forze dell’ordine.

Gli investigatori, coordinati dai Pm Gianluca De Leo, Claudio Camilleri e Francesca Dessì e dall’aggiunto Paolo Guido, accertarono tra l’altro che “cosa nostra” e la “stidda” (28 Settembre 2019 La ‘Stidda’ cerca di intimidire con locali attentati. Cos’è la ‘Stidda’), si spartivano gli affari illeciti.

Le indagini, avviate nel 2018, si sono sviluppate nella parte centro orientale della provincia di Agrigento ove risulta attivo il mandamento mafioso di Canicattì (AG) che costituisce tuttora l’epicentro del potere mafioso dell’ergastolano Giuseppe Falsone di Campobello di Licata comune in provincia di Agrigento, anche destinatario del provvedimento precautelare in esame in quanto risultato a capo della provincia mafiosa di Agrigento.

Per due anni, secondo gli inquirenti, nell’ufficio della penalista si sarebbero tenuti summit tra i vertici delle cosche agrigentine. Rassicurati dall’avvocato, i capi dei mandamenti di Canicattì, della famiglia di Ravanusa, Favara e Licata, Simone Castello e il nuovo capo della Stidda, l’ergastolano Antonio Gallea, killer del giudice Rosario Livatino, a cui i Magistrati avevano concesso la semilibertà, si sono ritrovati nello studio della Porcello per discutere di affari e vicende legate a Cosa nostra.

Furono ricostruiti i qualificati rapporti tra i rappresentanti del mandamento di Canicattì con esponenti di altre omologhe strutture delle province di Agrigento, Trapani, Catania e Palermo, sintomatici della perdurante unitarietà dell’organizzazione.

In proposito, particolarmente rilevanti sono i contatti con esponenti della famiglia G. di Cosa-nostra newyorkese, interessata ad avviare articolate attività di riciclaggio di denaro con Cosa-nostra siciliana.

Le centinaia di ore di intercettazione disposte hanno consentito agli inquirenti di far luce sugli assetti dei clan, sulle dinamiche interne, di coglierne in diretta, dalla viva voce di mafiosi di tutta la Sicilia, storie ed evoluzioni.

Difensore del boss ergastolano Giuseppe Falsone, l’allora avvocata Porcello si era fatta nominare legale di fiducia di altri due boss al 41 bis, il trapanese Pietro Virga e il gelese Alessandro Emmanuello, riuscendo a fare da tramite tra i tre, tutti detenuti nel carcere di Novara.

Dall’indagine è emerso anche che un agente di polizia penitenziaria, durante un colloquio telefonico tra Falsone e la Porcello avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell’incontro con il boss che sarebbe inoltre riuscito a inviare messaggi all’esterno.

Adduso Sebastiano

(le altre informazioni regionali le trovi anche su Vivicentro – Redazione Sicilia)


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