Mario Deaglio ragiona sulle conseguenze di un’ipotetica indipendenza e sottolinea la “ debolezza economica dei separatisti ”.
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erminate le manifestazioni, messa in disparte la retorica, occorre infatti tornare quietamente alle cifre.
E tanto vale cominciare dal debito pubblico: se la Catalogna vuole davvero «andar via» in maniera pacifica deve accollarsi una quota del debito pubblico della Spagna unita, dal momento che si tratta di un debito in parte suo così come in parte sue sono le esigue riserve valutarie e auree del Banco de España. Senza questo riconoscimento di debito (e di credito), difficilmente l’eventuale nuovo stato troverebbe sui mercati finanziari internazionali qualcuno disposto a prestargli denaro a tassi sostenibili. Di questi prestiti una Catalogna indipendente avrebbe sicuramente un gran bisogno, anche se le finanze pubbliche della Catalogna sono in stato migliore di quelle della Spagna, non foss’altro che per gli imponenti flussi turistici.
È, infatti, pressoché scontato che ci sarebbe una fase iniziale di debolezza estrema, anche per la prospettiva di esodo dalla Catalogna di imprese spagnole e straniere. Le probabilità di tale esodo sarebbero maggiori se Madrid si opponesse all’ingresso di una Catalogna indipendente nell’Unione Europea e quindi se le merci in partenza da Barcellona dovessero superare una dogana per entrare nel resto dell’Unione e nella stessa Spagna.
Come suddividere tra il debito pubblico tra i catalani e gli altri spagnoli? I criteri estremi sono essenzialmente due: in base alla popolazione, la Catalogna, con sette milioni e mezzo di abitanti, pari al 15 per cento della popolazione della Spagna, dovrebbe accollarsi all’incirca 160 miliardi di euro. In base alla quota del prodotto lordo, che è superiore al 20 per cento del totale spagnolo, il governo di Barcellona dovrebbe riconoscersi debitore di oltre 220 miliardi, dei quali dovrebbe curare regolarmente interessi e rimborsi. Tra queste due cifre sono possibili, anzi necessari, i «tavoli» delle trattative.
Non più soggette alla sorveglianza della Bce, le banche di una Catalogna che dichiarasse unilateralmente l’indipendenza sarebbero automaticamente meno credibili. Inoltre, tra quindici giorni l’agenzia Moody’s rivedrà il «rating» internazionale della Spagna, al quale è legato, in maniera indiretta ma efficace, il tasso di interesse che lo Stato spagnolo dovrà pagare per i prossimi prestiti.
I problemi non si fermano qui per il fortissimo intreccio di interessi tra la Catalogna e il resto della Spagna. Che fine farebbero le Baleari, vero gioiello del turismo spagnolo, prossime alla costa catalana, che vantano oltre un milione di abitanti, la cui cultura e la cui lingua sono vicinissime a quelle dei catalani? Che cosa succederà al treno ad alta velocità Barcellona-Madrid? Che ne sarà dei finanziamenti europei a progetti basati in Catalogna? E così, via discorrendo, in trattative sicuramente lunghe se l’indipendenza non deve essere solo uno slogan.
Probabilmente l’Unione Europea ha fatto bene, finora, a non intervenire. Ora però conviene quindi a entrambe le parti che non si facciano passi falsi e si proceda subito a colloqui concreti, nei quali la Bce e l’Unione Europea potrebbero avere un ruolo determinante, anche senza necessariamente schierarsi per l’indipendenza o per una maggiore autonomia.
Se però il «caso Catalogna» dovesse precipitare, ci troveremmo di fronte a un pericoloso gioco a somma negativa, in cui a perdere saremmo tutti noi europei. Per contro, una buona gestione della crisi catalana potrebbe innescare quel processo di revisione istituzionale europea che, in mezzo a tante parole, non si è ancora riusciti a far partire. Quale che sia la forma giuridica, una maggior vicinanza tra le regioni europee e Bruxelles, «garantito» dal trasferimento di una parte dell’imposizione fiscale dai governi nazionali al centro dell’Unione è un possibile sviluppo positivo. Siccome anche le nuvole più nere hanno un bordo d’argento, è su questo che dobbiamo contare.
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