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Castellammare di Stabia

“Io, Don Chisciotte”: il cavaliere errante e sognatore che c’è in ognuno di noi!

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Ha riscosso molto successo Fabrizio Monteverde, per il suo nuovo lavoro coreografico, “Io Don Chichiotte”, svoltosi ieri sera al Teatro Vittorio Emanuele. Una versione contemporanea che ha rivisitato il romanzo più letto al mondo di Miguel Cervantes, Don Chichiotte della Mancia.

Dedicato a chi vive oltre e fuori le regole. A chi trae dai sogni energia e linfa vitale costruendosi un mondo fatto di introspezione, un mondo ideale ma immaginario, al fine di alleggerire il nichilismo della quotidianità attuale.

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i replica oggi pomeriggio alle 17,30.

Potrebbe essere una dedica pensata a tutti coloro considerati folli ma che spesso non lo sono, rei soltanto di vedere le cose con uno sguardo differente, come artisti e filosofi, che sono degli alieni in questo particolare momento storico per nulla al mondo considerati.

Un viaggio introspettivo che ha coinvolto i presenti, attraverso le paure, gli inganni, le illusioni e a volte anche le ossessioni, spinte quasi fino ad arrivare ad uno stato compulsivo, che in una società complessa come la nostra non può che far riflettere sul significato di esistenza, dell’essere e del “fine” se mai davvero un epilogo sia previsto.

Sulla scena i libri, tanti libri, e una macchina, che insieme simboleggiano le poche cose ma essenziali che il Don Chisciotte possiede e custodisce gelosamente, quasi in maniera morbosa, come lo si evince quando la figura di Sancho Panza interpretata da una donna incinta, cerca di riordinarli dentro una culla, mentre lui in maniera quasi compulsiva li riporta a sè.

La lettura di questi romanzi cavallereschi lo condizionano a tal punto da trascinarlo in un mondo fantastico, nel quale si convince di essere chiamato a diventare un cavaliere errante.

Don Chichiotte, come è ben noto anche nella versione originale, viene spesso deriso ed è in balia di un pregiudizio, considerato un folle cavaliere, in quanto gli attori coinvolti nella vicenda narrata e danzata si prendono burla di lui. 

Celeberrima la scena del combattimento contro i mulini al vento, che è stata interpretata dai ballerini attraverso delle prese a cavalcioni, mostrandosi alti come enormi giganti, situazione resa ancora più evidente dal lavoro e giochi di luci ed ombre, oscurando la parte inferiore del corpo dei ballerini che facevano da perno, ad opera del bravissimo light designer Emanuele De Meria.

In questa versione Don Chichiotte è un mendicante, povero, e pieno di problemi da cui vuole fuggire, evadere, e lo fa nel miglior modo che conosce, affidandosi al proprio sentire, alla propria fantasia e immaginazione, sicuramente più confortante della realtà preesistente che non fa altro che restituire delusioni e aspettative disattese. Una realtà spesso distorta che decide di affrontare impavidamente e senza remore.

L’intersecare tra sogno e finzione, tra normalità e follia è il fulcro principale dell’opera, Don Chichiote, prototipo del sognatore, spesso ha un rapporto alterato e in conflitto con la realtà, allorché per assurdo, vive in una contraddizione perenne, derivata dal suo intenso desiderio di voler applicare meticolosamente il proprio raziocinio. Ma qual’è il confine tra il sogno e l’illusione? 

A placare in qualche maniera le fantasie irruenti che imbattono nella mente del Don Chisciotte ci pensa la figura di Sancho Panza che a differenza della versione classica qui è interpretato da una donna gravida, come a voler questa condizione, simboleggiare un amore materno e confortevole nei confronti del suo Don Chisciotte, di fatto, tra i due non vi è nessuna attrazione, nessun amore sbocciato, bensì, sentimenti di aiuto, conforto, spesso caritatevoli. Il suo ruolo, infatti, come nel romanzo è quello di ancorarlo e riportarlo nel mondo reale, la sua figura funziona da perfetta controparte all’interno del legame tra verità e illusione: da un lato, ella bilancia gli slanci fantasiosi di Don Chisciotte, ma dall’altro lato a volte cederà anche lei alla seduzione dei sogni.

Questa rilettura, in chiave contemporanea, del Don Chisciotte ha avuto un forte impatto verso il pubblico, anche per una serie di elementi non trascurabili, tecnicamente il coreografo ha davvero mescolato molti stili, a partire dal “contact” che dava proprio il senso di “pluralità” tra i protagonisti e gli altri attori, nonchè frammenti di “body percussion”, ha per esempio anche messo in atto una sorte di “disconnessione” creata da un’inaspettata lezione di danza, incentrata sull’esecuzione tecnica del Grand pliè, che inserita nel bel mezzo di un’opera tende a dar proprio quel senso di interruzione dalla realtà ovvero simbolo-momento di rottura che a volte irrompe in un percorso apparentemente logico e razionale dell’individuo.

E ancora, per introdurre famose musiche del balletto originale, spesso ha utilizzato il silenzio, importante quanto le note per Fabrizio Monteverde, ispirandosi sicuramente a chi per primi lo introdussero insieme alla musica concreta, sul palcoscenico, John Cage e Merce Cunningham.

Infatti, i suoni generati dal traffico della città, sirene di autoambulanza, pianti di neonati e voci di bambini che giocano in strada adoperati, sono tutti elementi sonori quotidiani volti a rappresentare la pesantezza di una realtà costante. Il loro utilizzo azzeccato, ha riportato alla memoria performance di danza d’avanguardia americana come “How to pass, kick, fall and run (1965), degli stessi John Cage e Merce Cunningham, promotori appunto di questo innovativo metodo creativo.

Leggiadra, e dai movimenti graziati ed eleganti, la performance di Dulcinea, in questa versione interpretata come una “donna di strada” emarginata dalla società, ma che per Don Chisciotte rappresenta l’illusione dell’amore ideale, lo stereotipo della femminilità che immagina e desidera.

Dodici in tutto i componenti del corpo di ballo che hanno introdotto il pubblico in un sogno, e che con la loro marcia decisa, si muovono e irrompono sulla scena in qualsiasi momento, pronti a far valere la propria personalità come a voler gridare io ci sono, e ben confermare ognuno la propria identità.

Scenografia sobria e scevra da ogni futilità, come i costumi curati da Santi Rinciari, essenziali, volti a far emergere solo il linguaggio del corpo e a far trasparire le emozioni dei ballerini.

Particolare è stato l’utilizzo del cappotto con funzione di un “capote de paseo”, dei toreri spagnoli, simbolo divergente, in questo caso, in quanto oggetto di protezione per chi magari non ha altro che tale indumento per proteggersi e difendersi.

Grande riconoscenza al Direttore della sezione Musica Matteo Pappalardo, che riconfermando il Balletto di Roma e Fabrizio Monteverde, anche ai fruitori della danza garantisce momenti di alto impatto culturale ed emotivo.

Mariella Musso

 


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