Una straordinaria rilettura del più noto balletto al mondo, totalmente fuori da ogni consuetudine legata all’opera classica per eccellenza,“Lo Schiaccianoci,” in chiave contemporanea, è stato portato ieri sera in scena al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, riscuotendo un enorme successo. Si replica stasera alle 17.30.
Sold out per “Lo Schiaccianoci” in chiave contemporanea al Vittorio Emanuele di Messina (recensione)
L
a fantasia molto apprezzata, del coreografo Massimiliano Volpini ha dato alla luce una nuova versione coreografica della famosa partitura di Čajkovskij, partitura eseguita in maniera eccellente dall’orchestra del teatro Vittorio Emanuele, diretta da Giuseppe Ratti, compositore di musica da camera, di scena e per orchestra e fiati, dal 2007 titolare della cattedra di Esercitazioni Orchestrali presso il Conservatorio “G.Verdi” di Torino di cui è stato anche vice direttore.
Un viaggio immaginario, quello a cui ci ha condotto uno dei prestigiosi coreografi del Balletto di Roma, Massimiliano Volpini, che riveste di attualità il binomio sogno/realtà in un’opera tradizionale, “sconvolta”, ma non per questo denudata dall’effetto aulico e fatato a cui siamo abituati nella classica versione.
Siamo, dunque, lontani dalla prima rappresentazione, che ebbe luogo il 18 dicembre 1892 presso il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, in Russia.
Lo si nota a cominciare dalle scene e costumi di Erika Carretta che ha utilizzato prettamente materiali recuperati e riutilizzati attraverso un riciclo molto creativo. Sul palcoscenico infatti sono stati adoperati materiali come vetro, plastica, legno, carta e cartone, presenti oggetti insoliti, come un carrello della spesa, apparso spesso nelle varie scene del primo atto, per condurci su un’idea fantasiosa del loro (ri)utilizzo, per scongiurarne il quotidiano e superficiale “rifiuto” che la società moderna minimizza e compie senza alcuna riflessione.
Una riflessione, appunto, a cui il coreografo invita, non soltanto circoscritta sull’aspetto ecologico, bensì, che abbracci anche il punto di vista psicoanalitico, conducendo lo spettatore a percorrere un percorso volto a meditare sulla condizione delle persone trattate come rifiuto, sul consumismo relazionale, sullo smarrimento delle identità sociali e delle modalità comportamentali che assumiamo, falsando la realtà non più oggettiva e facendo un uso eccessivo di “mille volti” di cui spesso ci si traveste, ingannando talvolta, anche se stessi.
Il libretto, nella forma convenzionale e della tradizione russa, è tratto da un racconto di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann ma in maniera alleggerita. La trama ormai nota in tutto il mondo, narra dei fratelli Clara e Fritz, che nella sera della viglia di Natale, scartano i vari regali dello zio, Drosselmeyer. Clara riceve un buffo schiaccianoci con le sembianze di soldatino. Durante la notte lo Schiaccianoci, aiutato dai soldatini del fratello, combatte una battaglia contro l’esercito del Re dei Topi. Dopo la vittoria Clara e lo Schiaccianoci si ritrovano nel Regno dei Dolci, dove incontrano la Fata dei Confetti e il Principe. In questo luogo incantato gli strani abitanti del regno si esibiscono nel divertissement più famoso e conosciuto delle musiche di Čajkovskij. Le danze proseguono per tutta la notte fino al risveglio di Clara.
Ma nella versione rivisitata dal coreografo Massimiliano Volpini, nessun regalo da scartare sotto l’albero. L’atmosfera pomposa e stucchevole delle feste, nella tradizionale ambientazione borghese, viene sostituita da una strada poco illuminata, come potrebbe essere quella di una qualunque periferia metropolitana, popolata da una banda di straccioni.
Un esercito di straccioni colorati e appariscenti, grazie ai costumi, firmati sempre, da Erika Carretta, abiti assembrati con pezzi di tela, gonne patchwork svolazzanti, soprabiti colorati, bottoni spaiati cuciti a vista che sostituiscono i bijoux. Molto belli e originali come a voler dare agli “invisibili” di ogni periferia, un mezzo, una voce, per essere notati e considerati da una società “sorda” che non fa altro che lasciarli ai margini nella più totale indifferenza.
Tramite un varco di un muro, che sembra voler delineare un confine tra la realtà e i sogni, nel primo atto fuoriescono dei topi infidi e battaglieri. Assistiamo ad uno scontro tra due bande per il controllo del territorio.
Il secondo atto invece, ha assunto le caratteristiche più vicine al tipico balletto della tradizione russa, sconfitto l’esercito dei topi, la banda di straccioni riesce a penetrare oltre il muro, che improvvisamente si apre formando al centro una grande forma di albero luccicante e dorata. Ed è il momento magico in cui avviene l’incontro con i personaggi bizzarri della favola.
Magnifica la performance dei ballerini, danze contraddistinte da gesti coordinati con maestria e sopraffine leggerezza aerea hanno incantato i presenti. Il balletto di Roma d’altronde è garanzia di successo come ben sa il Direttore Artistico della sezione musicale Matteo Pappalardo, che riconferma la compagnia ogni anno, al quale va un plauso anche per aver riportato a teatro un pubblico giovane interessato alla danza.
Il Trepak, o Danza russa, una delle parti più riconoscibili del balletto e ogni movimento della suite hanno suscitato parecchie emozioni, in particolare, ha coinvolto molto anche la variazione della Danza della Fata Confetto eseguita con maestria, eleganza e leggiadria a dir poco ammaliatrice.
Il susseguirsi di balletti, i gran pas de deux, il valzer dei fiori, cuore pulsante dell’opera, con tutti i ballerini che sfoggiano eccentrici e colorati costumi, hanno davvero incantato un pubblico attento che già alla fine del primo atto applaudiva con vigore. L’apoteosi finale ha rappresentato un momento vitale, gioiso, che culminato con l’allegro e famoso valzer, ha suscitato un turbinio di emozioni, invitando a pensare come la vita possa sempre riservarci piacevoli sorprese, in cui solo noi stessi possiamo esserne attori protagonisti, cedendo all’idea che i sogni nel cassetto trovino sempre il modo per manifestarsi e che non esista mai un “tempo determinato” per ben sperare, perché l’auspicio di una vita nuova non ha mai fine e la rivalsa di un’affermazione personale troverà sempre il suo corso per concretizzarsi.
Uno spettacolo che definire bello sarebbe riduttivo.
Indimenticabile, ovverosia memorabile.
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