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Castellammare di Stabia

Quando gli animalisti eccedono e fanno sopruso

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Quarona in provincia di Vercelli, un gruppo di animalisti vegani del Meta guidati da Valerio Vassallo ha impedito a padre e figlio di continuare la pesca sul fiume Sesia e questa azione da lo spunto a Michele Dalai per provare ad analizzare il tutto e a tirare le somme nell’editoriale di oggi:

Quel modo sbagliato di essere animalisti MICHELE DALAI

Tornandoci su con un po’ di calma. La storia dei pescatori e degli animalisti è terribile nella sua liturgia, per la stupidità colossale delle parole e dei gesti mandati a memoria dagli animalisti vestiti di nero, per le dichiarazioni solenni e marziali, per la triste incapacità di trovare un posto al mondo e di capire la propria irrilevanza, di accettare la marginalità della propria lotta in giorni come questi.

Ci sono un padre e un figlio che pescano sulle rocce. In Italia la pesca sportiva non è proibita, è disciplinata e ben regolamentata, esiste. Davvero, il fatto che esista è uno dei punti nodali della questione. Io ho pescato solo una volta da bimbo, mi facevano impressione gli spasmi del pesce che annaspa in cerca di ossigeno, il grande occhio che si fa vitreo, l’idea stessa della morte. Non sono un pescatore e con tutta probabilità non lo sarò. Le immagini delle tonnare mi fanno stare male. Ma proviamo a concentrarci sul momento di quel video e non sulle petizioni di principio.

Quello che mi interessa sono il padre e il figlio, che passano una giornata insieme sul fiume, il padre fa cose che ha imparato da suo padre e le tramanda. È un valore centrale quello delle tradizioni, consegnare l’esperienza dei padri ai figli, dare un senso al proprio passaggio da queste parti. Un figlio vede suo padre come l’eroe più potente, invincibile e giusto. Quei gesti, la canna retta con sicurezza, i luoghi più pescosi e l’intuito del cacciatore sono lezioni che si possono un giorno cancellare o rivalutare ma che in quel momento creano un legame. Esperienze vissute insieme, condivisione.

Una delle militanti dice, e si sente distintamente: «Non ci paga mica nessuno per farlo».

Ecco, meglio mi sentirei se qualcuno li avesse pagati per mettere in scena l’aggressione più ipocrita che abbia visto negli ultimi tempi e sì che son tempi terribili.

Dire a un bambino che pesca con il padre se si rende conto di essere un assassino e farlo senza essere pagati significa avere un’idea dell’umanità ormai drammaticamente compromessa.

Io non sono un animalista, sono un animale.

La mia specie si è evoluta prima bene e poi malissimo ma ha comunque raggiunto questo stadio grazie alla capacità di pensiero e discernimento che ogni tanto le permette di valutare opportunità ed errori con lucidità.

Non sono un animalista, sono un animale che rispetta enormemente le altre specie, consapevole però di amare e preservare più volentieri la mia.

Aggredire verbalmente un padre, mettere in scena il teatro orrendo del sofismo più bieco da lite di strada («non avvicinarti», «abbassa quella mano», «non toccarmi», «mi stai minacciando» e tutto il corollario di puttanate mandate a memoria alla centesima visione di un servizio televisivo), dopo aver ampiamente provocato l’uomo e aver fatto piangere il figlio è parecchio peggio che stroncare la vita di una trota, con tutto l’amore per la trota.

Violare una legge che permette ai pescatori sportivi di esercitare la loro passione, farlo con quella furia psicologica paramilitare che poi si è pronti sia a rinnegare sia a rivendicare con la stessa facilità, è una cosa che mi preoccupa e spaventa.

Meno di altre, più di altre ancora. Perché «se non vi pagano per farlo», se far piangere un bambino catechizzando il padre è il vostro atto di forza, la rivendicazione della vostra esistenza, bene io ho paura sia per noi sia per le trote (o qualsiasi altro pesce fosse attaccato all’amo).

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