Nel suo editoriale Giovanni Orsina spiega l’«alchimia che ha deciso la sfida». Marcello Sorgi, invece, si addentra tra le pieghe del voto tra impresentabili e lo spirito di Pirandello.
Intanto a Ostia CasaPound sfiora il 10%. E quando tra due settimane M5S e centrodestra si sfideranno al ballottaggio, l’estrema destra potrebbe essere il vero ago della bilancia.
L’alchimia che ha deciso la sfida
O
ra, come può questo schema aiutarci a comprendere l’attuale situazione politica italiana, a cominciare dalle elezioni siciliane dell’altro ieri? Procediamo con ordine.
Il Movimento 5 stelle è il caso più semplice: appartiene per intero al secondo schieramento e, da lì, raccoglie una gran messe di consensi, non da ultimo perché trascende in larga misura la frattura «classica » fra destra e sinistra. Le regionali siciliane lo hanno evidenziato ancora una volta. Negandogli la vittoria, tuttavia, hanno mostrato pure che molti elettori, per quanto insoddisfatti, diffidano del Movimento come forza di governo. E o continuano a preferirgli altri schieramenti oppure, in gran numero, si astengono.
La strategia di Matteo Renzi, da ultimo sempre più evidente – si pensi al rinnovo del vertice di Bankitalia –, è quella di portare il Partito democratico a pescare quanto più possibile nel bacino degli scontenti. Come detto, il disegno non è insensato: chiunque aspiri a occupare una posizione egemonica nello spazio pubblico italiano non può che rivolgersi a quella frazione dell’elettorato, cresciuta ormai a dismisura. Il Pd però, in Sicilia l’altro ieri così come in Italia fra qualche mese, si presenta agli elettori dopo aver governato per cinque anni. E se la Penisola l’ha amministrata senz’altro meglio dell’isola, non gli sarà comunque affatto facile darsi un profilo efficace «di lotta» dopo ch’è stato così a lungo «di governo».
Ma il caso più interessante è quello dei vincitori delle regionali siciliane. La ricomposizione dell’alleanza fra Forza Italia, la Lega e Fratelli d’Italia oggi nell’isola, ma domani a livello nazionale, sta creando uno schieramento capace di tenere insieme la destra di lotta e quella di governo. Di superare insomma la frattura fra l’establishment e chi vi si oppone. Chiedersi come ciò sia possibile è domanda tutt’altro che peregrina, tanto più che la divisione fra le due destre non è cosa soltanto italiana, ma è un dato strutturale di questa fase storica in pressoché tutte le democrazie. Possiamo cercare la risposta a quella domanda in quattro ipotesi, non alternative ma complementari l’una all’altra.
Ipotesi numero uno: la dimensione programmatica dell’azione politica è deperita a tal punto che, per lo meno a scopo elettorale, le differenze fra le due destre possono essere, se non del tutto trascurate, quanto meno minimizzate. Ipotesi numero due: Berlusconi in realtà non è mai stato percepito, né si è mai percepito, come un pezzo integrante dell’establishment, ma è sempre stato lui stesso un leader di lotta e di governo. Mentre la Lega, per parte sua, non è affatto un semplice movimento di protesta, ma ha una lunga tradizione amministrativa – fra l’altro governa da anni, e bene, due delle più importanti regioni italiane. Ipotesi numero tre: l’elettorato di destra in Italia è ideologicamente più grossolano, e perciò meno schizzinoso e rissoso, di quello di sinistra; in più di vent’anni s’è abituato all’alleanza fra le destre; e poi è sì sociologicamente moderato, ma pure psicologicamente infuriato, e una coalizione che soddisfi la sua ira senza mettere in pericolo la stabilità del suo mondo non gli dispiace affatto.
Ipotesi numero quattro, infine: su tanti temi – in Italia come, ad esempio, nei Paesi Bassi o in Austria – gli elettori stanno spingendo il centro destra moderato verso la destra più radicale. Ponendo il problema di chi sia destinato a guidare la coalizione. Non oggi, magari. Ma di certo domani.
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