Marta Dassù ragiona in vista delle elezioni e scrive: “Esistono uno scenario tedesco, uno spagnolo e infine una sindrome greca nel caso in cui dovessero vincere i partiti anti-sistema”.
L’Europa teme i costi della nostra fragilità
E
sistono tre scenari possibili sulle elezioni di marzo e il loro impatto europeo – mi dice un interlocutore di Berlino abituato a ragionare sull’Italia. Il primo è uno scenario «tedesco»: una grande coalizione che farebbe da specchio al governo che sta costruendo la Germania, ammesso che riesca. È il risultato preferito da noi tedeschi: avrai notato che Berlusconi non è stato riabilitato solo da Scalfari ma anche da Angela Merkel, con la benedizione di Antonio Tajani dal Parlamento europeo.
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Il secondo scenario – continua senza pause il mio amico tedesco – è di tipo «spagnolo»: nessuna maggioranza possibile e quindi un governo del presidente o di minoranza. Durerà quel che durerà, l’Italia sarà in condizioni di fragilità ma è un’ipotesi che non dispiacerebbe né alla Commissione di Bruxelles né a Parigi; in particolare, come Macron ha lasciato capire nella visita a Roma, se a gestirla fosse Gentiloni.
E infine – anche se mi dispiace dirlo, conclude il mio interlocutore – esiste uno scenario «Grecia plus». L’Italia non è certamente la Grecia, è la terza economia dell’euro. Ma se vincessero i partiti anti-sistema, il sistema di cui l’Italia fa parte, sto parlando dei mercati internazionali prima che dell’Europa, reagirebbe, come è appunto accaduto nel caso di Tsipras.
Viste le dimensioni dell’Italia, sarebbe uno scenario problematico per l’eurozona nel suo insieme ma anzitutto per il vostro Paese, con costi alti anche se difficili da stimare. È lo scenario meno probabile, direi quasi impensabile dato il sistema elettorale; ma è bene che gli italiani lo abbiano in mente.
Attacco il telefono e ci penso un momento: le elezioni di casa nostra, viste dall’Europa, suscitano un’attesa interessata ma non grandi emozioni. Poco a che fare con la suspence che aveva preceduto il referendum su Brexit. E nulla a che vedere con il pathos suscitato dalle elezioni francesi; vissute, nella primavera scorsa, come un test decisivo per la tenuta dell’Ue stessa, alle prese con un’epica disfida fra europeisti e sovranisti. Oggi – dopo che Brexit ha dimostrato i suoi costi e dopo che Macron ha vinto in nome dell’Europa e non contro – il clima è più rilassato. Anche perché il fronte sovranista, nella versione nazional-populista, è forte in Europa Centro-orientale ma appare in stallo nel cuore dell’Europa Continentale. Marine Le Pen non è più considerata una sponda utile da nessuno, neanche da Putin probabilmente. Nel caso italiano sia il Movimento 5 Stelle che la Lega appaiono in ascesa; ma hanno rimesso nel cassetto i sogni di un referendum sull’euro. Si direbbe che il famoso «vincolo esterno» (i paletti imposti dal contesto internazionale), così deprecato a parole, eserciti ancora un effetto preventivo.
In teoria, il grande scontro sui destini europei dell’Italia dovrebbe largamente definire l’agenda delle elezioni di marzo. Nei fatti, così non è. Sia lo schieramento europeista (con l’eccezione della Lista Bonino) sia i suoi avversari usano infatti toni minori, con un’opinione pubblica passata in pochi anni dall’euro-entusiasmo allo scetticismo nell’Ue. E si parla d’altro. La sfida elettorale italiana appare così come una versione appassita e confusa della grande battaglia che si è consumata fra Londra e Parigi. E l’Italia sembra piuttosto ricaduta in riti ben conosciuti, incluse promesse economiche in libertà – che tanto, lo si sa già, nessuno rispetterà.
Attenzione però. Dal 5 marzo la questione essenziale, in chiave italiana, sarà quale governo (con quale maggioranza composita) potrà meglio interagire con l’Europa in una fase delicata. Delicata e accelerata: in cui la Francia di Macron e la Germania, se sorretta da una Grosse Koalition che ha precisamente l’Europa al primo punto del programma, metteranno sul tavolo riforme importanti dell’euro-zona. L’Italia non ha alcun interesse a rimanere ai margini di una discussione essenziale per il suo futuro.
Il nostro Paese deve evitare due errori di valutazione speculari. Da una parte, non deve illudersi che il caso dell’Italia sia vissuto dal resto d’Europa come un rischio esistenziale per l’Ue e che quindi sia possibile trasformare la propria debolezza in forza contrattuale: al di là delle parole di Pierre Moscovici (Commissario agli Affari economici dell’Ue) sul rischio politico insito nelle elezioni italiane, nessuno dimostrerà alla prova dei fatti una particolare indulgenza. I costi della fragilità italiana ricadrebbero anzitutto su di noi. D’altra parte, e all’opposto, l’Italia non deve sottovalutare la sua rilevanza su alcuni dossier che possono spostare gli equilibri nell’Ue: assetto dell’area euro, gestione dei flussi migratori, difesa e sicurezza. Fra illusioni sulla propria debolezza e sottovalutazione della propria forza, rischia di perdersi il punto centrale: l’Italia deve essere in condizioni di giocare la sua partita non nell’Europa di ieri, che sta tramontando, ma in quella in cui vivremo domani, che si sta configurando.
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