È
inutile girarci attorno: le notizie che arrivano da Calais, confine franco-britannico, e dal confine greco-macedone, dicono chiaramente che la crisi dei migranti è ormai esplosa tragicamente anche prima del nuovo vertice europeo, convocato il 7 marzo, per cercare rimedi reali. La miope illusione di resistere alzando di nuovo steccati ai confini si sta rivelando, oltre che inutile, pericolosa; basta solo guardare le immagini che arrivano dal villaggio greco di Idomeni, da dove è partita la marcia di disperati accolta con i gas dalla polizia macedone, oppure, mentre il Belgio chiude le sue frontiere, quelle dello sgombero violento della cosiddetta «giungla» di Calais, su cui rischia di perdere la faccia il presidente francese Hollande. Il quale ha promesso invano di spostare in containers riscaldati le migliaia di rifugiati che si accalcavano nella tendopoli più grande d’Europa, ed è stato per questo sbeffeggiato su Twitter perfino dalla sua ex-compagna Valerie Trierweiler.
Al momento, solo il Papa sembra essersi reso conto della gravità di quanto sta accadendo, dal Messico all’Europa, a causa della pressione dei migranti e della sordità dei governi che dovrebbero soccorrerli, e si stanno rivelando incapaci di approntare anche provvisorie soluzioni d’emergenza.
Non a caso, domenica all’Angelus, Francesco ha di nuovo fatto sentire la sua voce, per spingere a una generale presa di coscienza del fenomeno, che non è esagerato definire epocale, e se trascurato potrebbe avere conseguenze devastanti.
L’Europa ha davanti a se l’ultima occasione per rimediare al recente, irresponsabile e contraddittorio andamento delle sue decisioni. Dalla scorsa estate a ora, si è passati dalla svolta in senso solidale, voluta dalla Merkel davanti alla foto del piccolo Aylan morto sulla spiaggia, e alla grande ondata di profughi provenienti dalla Siria, giunti attraverso la Turchia in territorio tedesco, all’impossibilità di gestire l’insorgere dei vari egoismi nazionali nell’Unione, la crescita dei muri, la sospensione del trattato di Schengen, decisa con l’avallo della Cancelliera, che ha portato alla minaccia austriaca di chiudere il passo del Brennero. Così anche l’Italia si ritrova condannata a un destino simile a quello della Grecia, «magazzino di anime», secondo le terribili parole del ministro delle politiche migratorie Ioannis Mouzalas.
Oltre al flusso abituale, chiamiamolo così, dei profughi nordafricani provenienti da Lampedusa, che potrebbero restare bloccati al confine con l’Austria, oltre ai molti arrivati a Calais dall’Italia e decisi a farvi ritorno, la chiusura (o il forte restringimento, si vedrà nei prossimi giorni) del confine greco-macedone spinge verso la costa adriatica della Puglia, già affollata di sbarchi negli Anni Novanta, la massa dei siriani in fuga dalla guerra. Quali potranno essere le dimensioni di questo esodo, man mano che la stagione, meteorologicamente parlando, volge al meglio, è impossibile prevederlo. Ma già con quel che abbiamo sotto gli occhi, e con l’allarme lanciato ieri ai sindaci pugliesi dal ministro dell’Interno Alfano, si capiscono meglio i toni da emergenza adoperati da Renzi negli ultimi due mesi, e sfociati alla fine nella tregua interlocutoria, in attesa del 7 marzo, siglata venerdì a Roma dal presidente della Commissione Ue Juncker.
E se è ancora non è chiaro se e come il problema possa essere affrontato, adesso e nel futuro prossimo, di sicuro diventerà impossibile fronteggiarlo con gli attuali strumenti, e soprattutto con l’emergere o il riemergere dei singoli egoismi nazionali. Perfino i Paesi che vorrebbero, o sono costretti a far qualcosa – vedi l’Italia, che ha ricevuto con il ministro Gentiloni i primi trecento di mille profughi siriani inseriti in un programma di accoglienza – senza un vero aiuto europeo, non sono in grado di farlo. Figurarsi quelli come Francia, Austria e Germania, più esposti al rischio di una crescita oltremisura dei movimenti xenofobi antieuropei; o quelli (Ungheria, Polonia, Slovenia, Croazia) in cui partiti con queste posizioni si sono insediati al governo e di lì alzano muri, o si rifiutano di ricevere le quote di immigrati stabilite nei vertici europei. Inoltre è impossibile impegnarsi in costosi piani di assistenza e sicurezza, aggravando i singoli bilanci statali nazionali, mentre Bruxelles continua a imporre politiche economiche di rigore e equilibrio dei conti pubblici.
Per tutte queste ragioni, al prossimo vertice europeo serve una vera svolta. In politica, di tanto in tanto, le svolte che sembrano impossibili sono imposte dallo stato di necessità, un insieme di fattori che porta a un percorso obbligato. È esattamente questa la scadenza a cui l’Europa è arrivata, il suo punto di non ritorno.
*lastampa
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