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lle opposizioni, che per contratto cercano di far cadere il governo, si sono aggiunti come in un Lego pezzi del cosiddetto «establishment». Cioè gruppi e personaggi finora sempre presenti nelle mappe del potere reale, abituati a condizionare la politica. Ma che ultimamente si sentono messi da parte, in qualche caso sfidati da Renzi. Per cui reagiscono contestandolo. Â
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La lista di questi pianeti ostili si sta allungando.Â
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All’ inizio c’era ruggine coi giudici per la polemica sulle ferie (anche grazie a Mattarella i rapporti con le toghe sembrano adesso migliori, ma definirli ottimi sarebbe eccessivo). Poi le crisi bancarie hanno scosso alcuni santuari della finanza: in Consob e perfino in Via Nazionale non tutti apprezzano il piglio decisionista di Palazzo Chigi. Le nomine di Calenda e di Carrai sono state vissute come dita negli occhi da due corporazioni, rispettivamente la diplomazia e gli apparati della sicurezza, sempre tenute dai politici in palmo di mano. La Cirinnà e le unioni civili hanno alienato le simpatie di un mondo ecclesiastico già frustrato dalla straripante novità di papa Francesco. All’elenco si potrebbero aggiungere i sindacati, che una volta erano capaci di far cadere i governi con il semplice annuncio di uno sciopero. Ma da allora i tempi sono molto cambiati… Â
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C’è insomma una quota di alta burocrazia (non tutta), di «civil servants» (specie i privilegiati), di potentati economici (quelli rimasti) che al capo del governo rimproverano di muoversi con una determinazione sconfinata. Si sentono rispondere da Renzi, vedi ieri nell’Assemblea nazionale Pd, senza alcun timore reverenziale: come se gli attacchi venissero da una casta di mandarini cinesi, anzi di «illuminati aristocratici con molti veti e pochi voti», i quali «per decenni hanno fatto la morale alla politica per apparire cool all’ora dell’aperitivo o del brunch». L’ultima cosa che farà Renzi, sotto il fuoco nemico, sarà di apparire titubante o tremebondo. Nello stesso tempo il premier sa bene che una fetta di classe dirigente lo sta aspettando al varco. Che qualcuno spera di rimpiazzarlo con personalità meno anti-casta. E che per farcela dovrà attraversare, di qui a fine anno, tre anelli di fuoco.Â
Il primo cerchio sarà la trattativa sul deficit con l’Europa. Sono in discussione non solo gli zero virgola della flessibilità , ma gli obiettivi di rientro dal debito e dunque i 35 miliardi delle cosiddette clausole di salvaguardia che l’Italia dovrebbe rastrellare tra 2017 e 2018. Se il tentativo di «cambiare verso all’Unione» non andrà in porto, se insomma la risposta di Bruxelles sarà negativa, addio tagli delle tasse e spinta ai consumi. Andremo incontro a una nuova stretta di austerità . E i contraccolpi saranno tali da far sognare non solo Brunetta, ma tutti coloro che ai piani alti tifano Merkel in funzione anti-premier.Â
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Il secondo cerchio verrà a coincidere con le elezioni amministrative di giugno: ogni grande città persa dal Pd sarà messa sul conto del premier e considerata prova che la fortuna sta girando altrove. Infine, a ottobre, ecco la «madre di tutte le battaglie», come ebbe a definire Renzi il referendum costituzionale. Anche se non avesse preso l’impegno di dimettersi in caso di sconfitta, è del tutto evidente che nessun premier potrebbe restare al suo posto una volta sconfessato dal popolo. I sondaggi non sono così favorevoli alla riforma come si sarebbe portati a credere, esiste un margine di incertezza.Â
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Ma se Renzi precipitasse, non è detto che il club dei suoi critici avrebbe motivo per brindare. Dipende. Se riuscissero a rimpiazzarlo con qualche personalità meno incline alle rottamazioni, allora certo avrebbero ottenuto il massimo. Se viceversa spalancassero la strada a Grillo o a Salvini, in quel caso passerebbero dalla padella alla brace. Il crinale tra critica e destabilizzazione, oltre che sottile, è dunque assai scivoloso.Â
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*lastampa
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