Cannabis, il divieto vada in fumo MATTIA FELTRI*

«Non c’è stata alcuna depenalizzazione della cannabis», ha detto ieri il ministro della Salute, Beatrice...

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«Non c’è stata alcuna depenalizzazione della cannabis», ha detto ieri il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Non soltanto non c’è stata alcuna depenalizzazione, ma nemmeno gli frullava per la testa.  

Non era neanche qualcosa che somigliasse a un’ipotesi, è stato soltanto un colossale fraintendimento: il Consiglio dei ministri si è limitato a stabilire le sanzioni per gli istituti di ricerca che, autorizzati a produrre cannabis terapeutica, sforino i quantitativi stabiliti: si passa al penale soltanto alla seconda infrazione. È bastato questo aggiustamento normativo perché montasse la solita rabbiosa polemica fra proibizionisti e no. Gli argomenti e i toni hanno onorato la tradizione, alla lettera, senza però suscitare nuove riflessioni, se non una: quanto è distante il dibattito dalle abitudini quotidiane? Secondo il report delle Nazioni unite sul consumo di droghe leggere, quasi il quindici per cento degli italiani fa uso, non necessariamente assiduo, di hashish e marijuana. Cioè milioni di persone che vien difficile catalogare alla voce «drogati», come si faceva sbrigativamente una volta. Il punto è ancora un altro: qualsiasi giudizio si abbia delle droghe leggere e degli effetti sul fisico, sarebbe bene ragionare su un comportamento diffuso, socialmente accettato, che unisce genitori e figli, poiché il report parla del quindici per cento di italiani compresi fra i quindici e i sessantaquattro anni. Ci sono padri e madri che fumano con i loro ragazzi proprio per togliergli il fascino del proibito, per esercitare una forma non autoritaria di controllo, e dunque per sperimentare una via familiare della riduzione del danno: quella cui si appellano le medesime Nazioni unite quando propongono la depenalizzazione che in Italia è sacrilegio. 

Sta diventando complicato accettare i presupposti delle conseguenze penali per chi fuma spinelli, e ne detiene una scorta, se dopo non si mette al volante né gira per le vie con armi da taglio. E non più per amore di liberalismo – non c’è corrispondenza: ci si rassegni – ma proprio per l’estensione del fenomeno, tale che generalmente non è percepito come reato, né da chi lo commette né da chi si astiene. È nei fatti, come sono nei fatti le coppie omosessuali, i diritti che richiedono e i doveri che accettano, il loro inserimento nelle più ovvie relazioni sociali, i loro figli che, coi sistemi più vari, sono nati all’estero e vivono in Italia: bambini amati dai genitori, dai parenti, dai vicini di casa, dai compagni di scuola. Che senso ha scannarsi su principi essenziali, che poi sono mille sfumature semi-ideologiche di partitini con difficoltà alla vista e all’udito, quando già il mondo è da un’altra parte, e vive in un altro modo? Lo stesso discorso vale per l’eutanasia, a cui si ricorre spesso, e in silenzio, in regime di obbligatoria ipocrisia per evitare guai ai sopravvissuti.  

Ci si rende conto della delicatezza delle questioni, specialmente dell’ultima (le prime due non sono più nemmeno tante delicate). Ma quando si dice che gli italiani sono più avanti dei legislatori non si fa esercizio di retorica: ne abbiamo avuta la prova quando sono stati votati i referendum sull’aborto e sul divorzio, le due partite storiche dei radicali di Marco Pannella. Forse l’indissolubilità della famiglia ci era rassicurante, e il ricorso all’aborto è senz’altro una tragedia, lo è sempre, ma gli aborti calano di anno in anno, e le famiglie ci sono ancora, eterosessuali e omosessuali. Se per festeggiare lo scampato pericolo qualcuno ci volesse fumare sopra una canna, non sarebbe una tragedia. 

 

*lastampa

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