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Castellammare di Stabia

Il Belpaese prigioniero e in balia delle correnti

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Al di là dell’esito dell’assemblea del Pd, il vero grave rischio che corrono gli italiani nel prossimo futuro non è costituita da una eventuale scissione tra le correnti del partito democratico, ma da qualcuno, fuori dai nostri confini, che ci costringa a fare ciò che nessuno, dentro i nostri confini, ha il coraggio di fare.

Le correnti imprigionano il Belpaese

L

a prudenza è una virtù, ma in politica è un obbligo. Ecco perché, anche se gli aruspici più autorevoli prevedono con assoluta sicurezza la scissione nel partito democratico, fino al termine dell’assemblea nazionale di domani, nulla può essere escluso. Se la deriva di polemiche, rivalità, vendette trasversali, gelosie e inimicizie, però, sarà inarrestabile, il frazionismo si confermerà come il morbo più grave e più ostinato nella vita pubblica italiana. Un morbo che persino sprezza i più ovvi vantaggi reciproci, che trascura le conseguenze più nefaste, che abiura il passato e gioca d’azzardo col futuro.

Una colpa di cui nessuno può proclamarsi esente, quando tutti cercano di addossarne all’altro la responsabilità e ognuno è complice, quando fa finta di impegnarsi per scongiurarla.

La storia del nostro Paese, per limitarci agli ultimi tempi, è eloquente, dalle divisioni della democrazia liberale all’inizio del Novecento, che aiutarono l’avanzata del fascismo, alle rivalità, personali e politiche, nella sinistra riformista e nella destra conservatrice, durante la cosiddetta seconda Repubblica, che hanno minato l’unico tentativo di affermazione di quella democrazia dell’alternanza che potrebbe consentire un governo stabile all’Italia. Una augurabile condizione per la ripresa economica e lo sviluppo civile del nostro Paese che l’obbligata decisione della Corte Costituzionale sulla legge elettorale, contro un ballottaggio senza una adeguata soglia d’accesso, sembra aver precluso. Una sentenza che denuncia la ripetuta e vergognosa insipienza della nostra classe politica in tale materia.

Il puro sistema proporzionale, assieme allo sfarinamento di qualsiasi consistenza ideologica degli attuali partiti, è il principale imputato per il rischio di ingovernabilità o di precaria governabilità che incombe sulla politica italiana. Coloro che, per reducismo nostalgico o per convenienza elettorale, confutano questa tesi, appellandosi alla solidità del sistema durante la prima Repubblica, proprio contro il male del frazionismo, trascurano alcune ovvie evidenze storiche.

È vero che le divisioni in correnti erano caratteristiche quasi identitarie, si potrebbe definirle costitutive, della democrazia cristiana, ma esistevano due impedimenti fondamentali perché non si arrivasse a una scissione. La spartizione del mondo tra Occidente e Unione Sovietica obbligava quel partito a ricoprire il ruolo di fondamentale asse centripeto del governo nazionale, sulla frontiera europea più importante della «guerra fredda». Il compenso per quella forzata unità, poi, era fornito dalla garanzia di quella «circolazione delle élites», per dirla alla Pareto, che offriva a tutti i capicorrente l’opportunità, a rotazione, di una più o meno breve permanenza o alla segreteria o al governo.

Anche nel principale partito dell’opposizione, il Pci, erano solide e riconosciute le correnti e le sfide ai congressi tra i loro leader, Napolitano, Ingrao, Cossutta erano tutt’altro che mascherate, ma il «centralismo democratico», la regola su cui si fondava la convivenza in quel partito, era rispettata da tutti, perché tutti sapevano che il posto di segretario sarebbe stato occupato mai da un capocorrente ma sempre dalla figura di un autorevole mediatore. Ecco perché il male del frazionismo, costante nella storia della sinistra italiana, come argutamente ha ricordato Mattia Feltri in un «Buongiorno» di alcuni giorni fa, non ha impedito al comunismo italiano del secondo dopoguerra di mostrare una immagine di granitica unità e di fedele obbedienza.

Liberato dai lacci di quel mondo, di quelle ideologie, ma anche dai due leader che hanno trasformato le vecchie formazioni politiche in partiti personali, Berlusconi e Prodi, coloro che hanno guidato l’alternanza nella seconda Repubblica, il frazionismo trionfa a destra, tra sbrigativi sovranisti e schivi europeisti, come a sinistra, tra rottamatori non pentiti e resistenti inveleniti. Ma la conferma che questo morbo italico ha contagiato persino la più nuova formazione politica e, quindi, in apparenza immune da vecchie tare ereditarie, viene dalla rissosità correntizia del Movimento 5 stelle, dove nemmeno la carismatica e dittatoriale guida di Grillo riesce a tamponare le numerose fuoriuscite nei gruppi parlamentari e le dissidenze polemiche nei governi locali.

Al di là dell’esito dell’assemblea del Pd, il vero grave rischio che corrono gli italiani nel prossimo futuro è che non ci sia – tra quelli che vogliono le elezioni a settembre come tra quelli che puntano alla fine naturale della legislatura – chi sia in grado di sostenere l’onere di una manovra economica che il governo Gentiloni, o qualunque governo dovesse sostituirlo, sarà destinato a varare. E che l’emergenza non sia costituita da una eventuale scissione del partito democratico, ma che qualcuno, fuori dai nostri confini, ci costringa a fare ciò che nessuno, dentro i nostri confini, ha il coraggio di fare.


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