L’unto dal Sistema: ora l’establishment lo guarda con indulgenza
È accaduto: cinque lustri dopo la discesa in campo del ’94, Silvio Berlusconi è diventato, in questo finale di legislatura vissuto come un viaggio verso l’ignoto, un “populista buono”, incarnatore di una stabilità presunta, l’argine affidabile.
Dice Paolo Mieli: “Il clima è cambiato. L’ultima volta che si eleggeva il capo dello Stato, Berlusconi stava andando ai servizi sociali senza manette e ora che i nuovi barbari sono i Cinque Stelle torna come salvatore della patria. Da qualunque parte lo guardi è un alleato di un possibile governo. Così viene vissuto”.
C
’entrano certo il carattere e i vizi degli italiani, avvezzi alla comodità di un oblio repentino più che alla fatica della memoria, grande costante della storia d’Italia: “È un classico – prosegue Mieli – di questo paese. La demonizzazione successiva comporta sempre la riabilitazione parziale o totale del demonizzato dell’ora precedente. Ricorda Cossiga? Il partito che ne chiese l’impeachment per gladio e i i servizi deviati alla fine degli anni Novanta lo portò in trionfo alla festa dell’Unità neanche fosse un Lenin redivivo”.
C’entra però molto, forse soprattutto, la politica di oggi: “Il suo ritorno – sostiene lo storico Giovanni Orsina – è il sintomo di un cambio d’epoca, ovvero della crisi di un sistema politico che non riesce a produrre nulla di nuovo e a stabilizzarsi, e che consuma soluzioni, come il renzismo disintegrato in tre anni”. Si spiega così perché un pezzo dell’establishment racconta un Berlusconi “potabile”, “moderato”, con i giornali del mondo dell’impresa che rimuovono il ricordo del default economico del 2011 (ricordate il “fate presto” del Sole) e gli oppositori politici che rimuovono la gigantesca anomalia democratica che ha rappresentato (e rappresenta) con un mai irrisolto conflitto di interessi, e un imbarazzante bagaglio di scandali etici e processuali. Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl ai tempi del famoso assedio “politico-mediatico-giudiziario” non riesce a capacitarsi di cotanta benevolenza: “Parliamoci chiaro. Siamo in una situazione ultra-paradossale. Che cosa significa la frase di Scalfari “tra Berlusconi e Di Maio voterei Berlusconi”? Significa che essendo tutti terrorizzati sia dal Movimento a Cinque stelle sia da Salvini, oggi si perdona a Berlusconi anche quello che costituì la ragione della demonizzazione più totale, come il suo rapporto spregiudicato con le donne, peraltro in un momento in cui si discute solo di scandali sessuali, da Weinstein a Brizzi”.
È cambiato il clima, oltre ai rapporti di forza per cui l’ex premier non è più il dominus assoluto del paese, ma solo un attore rilevante del gioco politico. Paradigmatica, di questo nuovo clima, anche la vicenda dell’assegno di Veronica, la grande accusatrice “politica” del “ciarpame senza pudore” e del “mio marito è un uomo malato”, revocato dalla corte d’appello di Milano. Impensabile, solo qualche anno fa, quando la “malattia” dell’ex premier, cioè l’ossessiva dipendenza dal sesso faceva chiedere a mezza Italia se avesse la lucidità di governare il paese e spingeva il Palazzo a costruire soluzioni di emergenza. O anche l’udienza della Grande Chambre di Strasburgo, con i giudici che hanno preso molto sul serio il ricorso presentato dal Cavaliere sull’applicabilità della Severino, e con le fanfare berlusconiane che si sono spente in un clima di rigore, sobrietà e, perché no, di moderazione per nulla evocativo delle scomposte intemerate dei questi vent’anni. Prosegue Mieli: “È evidente che, in questo nuovo clima, lui asseconda, gioca, non è mica stupido. I suoi voti serviranno se si dovrà fare un governo di unità nazionale. Oggi il più grande ammiratore di Berlusconi, senza che lo dica, è Mario Draghi”.
E chissà se è un caso che che proprio del presidente della Bce l’ex premier è assurto al ruolo di grande difensore, prima quando in Parlamento arrivò la famosa mozione del Pd per impedire il rinnovo di Visco poi in commissione banche, di fronte alla volontà del Pd di coinvolgerlo: “Sarebbe da irresponsabili” disse. Senza più la forza di un tempo, azzoppato dall’incandidabilità, comunque Berlusconi gode, di un vantaggio posizionale: principale azionista di un governo di destra, possibile partner di un governo di larghe intese, interlocutore “affidabile” di un certo establishment europeo: “Col senno di oggi – spiega Orsina – Berlusconi in realtà è più establishment di altri. Così ti spieghi Scalfari e chi lo vede partner di un governo di larghe intese, perché comunque ha un rapporto col sistema prolungato, con la politica sin dai tempi di Craxi, partecipa di una certa cultura dell’Italia repubblicana, ha un programma, la rivoluzione liberale, che sono gli anni ottanta, non il vaffa”.
Il Sistema, insomma, riconosce Berlusconi, Cavaliere non più nero, né più Sua Emittenza o Papi, che in tv appare come un simpatico vecchietto finché non parla di Dell’Utri o dei giudici, parole che, come una amara madeleine, fanno riemergere il tempo perduto. E il Sistema con Berlusconi crea, già ora, le condizioni per tutelarsi e autoriprodursi, come accaduto con la forzatura sulla legge elettorale, perfetta per escludere dalla prospettiva del governo le “turbolenze”, per la stabilità immaginata, come i Cinque Stelle. In questa dinamica (e in questo clima), di larghe intese già in atto, l’attuale governo, a ben vedere, non è affatto ostile sui dossier che contano davvero per Berlusconi, anzi. Di rottura del duopolio, per dirne una, non se ne è neanche parlato a proposito di interessi televisivi, né di una riforma che costringesse una azienda cotta come Mediaset a investire per essere più competitiva. Su sulla difesa di Mediaset da Vivendi il governo poi si è mobilitato più che per l’agenzia del farmaco, in nome dell’interesse nazionale. E soprattutto, con la mossa della golden power su Telecom, si è posto in una posizione terza e di garanzia, ponendo le basi per sminare dal tema del conflitto di interessi del Cavaliere il prossimo governo. Sempre che questo schema e questo clima sopravviva a un ostacolo chiamato voto.
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