Dialogo a cuore aperto con il sociologo e saggista sul futuro della scuola, della famiglia e della nostra identità digitale
Pira: “educare all’onlife significa anche insegnare a riconoscere e valorizzare ciò che ci rende autenticamente umani”
Conosco Francesco Pira da anni e, oltre ad apprezzarne la professionalità, ho sempre ammirato la sua capacità di coniugare competenza accademica e sensibilità umana.Professore di Sociologia all’Università di Messina, saggista e giornalista e soprattutto divulgatore instancabile, Pira ha saputo portare il dibattito sull’educazione e la comunicazione a un livello nuovo, attuale e profondamente necessario.
Il suo nuovo libro, “La buona EduComunicazione – Scuola e famiglia, un approccio sociologico nella nostra nuova vita onlife”, affronta con lucidità e passione un tema cruciale: come educare e comunicare in un’epoca in cui il confine tra vita reale e digitale si è dissolto, dando vita a quella che lui definisce “onlife”.Questo concetto, “onlife”, coniato dal filosofo Luciano Floridi, descrive la nostra condizione contemporanea: viviamo costantemente immersi in una realtà ibrida, in cui la dimensione fisica e quella digitale si intrecciano senza soluzione di continuità.In questo contesto, educare alla comunicazione significa formare cittadini consapevoli, capaci di gestire le relazioni, l’informazione e la propria identità in modo responsabile.Quella che segue non è una semplice intervista di presentazione, ma una conversazione a più livelli: uno scambio tra colleghi e amici, una riflessione sul futuro della nostra società e un invito a pensare in modo critico a come viviamo, apprendiamo e ci relazioniamo oggi.
Visione e ispirazione
• Come nasce l’idea di unire educazione e comunicazione in un unico concetto di “buona educomunicazione”?
«L’idea affonda le sue radici in un contesto teorico e pedagogico preciso: l’educomunicazione nasce in America Latina, come risposta alle profonde trasformazioni culturali e sociali legate all’avvento dei media e delle tecnologie digitali. È un approccio che ha origine nel lavoro di studiosi come Ismar de Oliveira Soares, che ha proposto una visione educativa fondata sulla creazione di ecosistemi comunicativi aperti, dialogici e partecipativi.Non si tratta semplicemente di usare strumenti digitali nella didattica, ma di integrare in modo sistemico comunicazione, emozione, pensiero critico, relazione e cittadinanza.
In questa prospettiva, l’educomunicazione supera la media education tradizionale e si configura come una vera visione culturale, capace di generare ambienti formativi in cui la libertà di espressione e la partecipazione attiva diventano elementi centrali.L’educazione emozionale, in questo quadro, non può essere un’aggiunta occasionale: deve diventare un asse portante, trasversale, capace di rispondere a una domanda radicale e sempre più urgente nel tempo delle intelligenze artificiali e del dominio dei dati: cosa significa essere umani?
L’idea di fondo nasce dalla consapevolezza che oggi educare non è più possibile senza comunicare, e viceversa.
L’educazione e la comunicazione non sono compartimenti stagni, ma ambiti profondamente intrecciati, soprattutto nell’esperienza quotidiana dei più giovani.L’uso diffuso delle tecnologie digitali ha reso evidente come ogni atto educativo sia inevitabilmente anche un atto comunicativo.Il mio nuovo saggio “La buona educomunicazione” nasce quindi dall’esigenza di proporre un nuovo modello relazionale, che integri competenze pedagogiche e comunicative, capaci di costruire senso e responsabilità nei contesti formativi.Vuole offrire una prospettiva che mette al centro la persona e la qualità delle relazioni, superando l’idea di comunicazione come semplice trasmissione di contenuti».
• C’è un episodio della tua vita professionale o personale che ha acceso questa scintilla?
«Più che un singolo episodio, è stato l’insieme dei tanti confronti avuti nel tempo con docenti e studenti durante momenti di formazione o sensibilizzazione sul tema del digitale.
In quei dialoghi emergeva sempre con forza una distanza comunicativa tra il mondo adulto e quello giovanile: linguaggi diversi, approcci opposti, spesso visioni inconciliabili.Uno degli elementi ricorrenti era il ruolo degli smartphone, vissuti dagli adulti come ostacoli e dai ragazzi come prolungamenti naturali del sé. È stato in queste occasioni che ho maturato la convinzione che non possiamo più limitarci a fornire strumenti tecnici o regole d’uso.
Serve un vero cambio di paradigma: riconoscere che la relazione educativa deve passare anche attraverso una comprensione profonda dei codici comunicativi con cui i giovani costruiscono la loro identità.Solo così educazione e comunicazione possono davvero intrecciarsi in modo efficace».
Onlife e identità
• In un mondo dove online e offline si fondono, come cambia il nostro concetto di identità?
«L’identità oggi non è più una costruzione lineare e stabile, ma un processo continuo di negoziazione tra ciò che siamo e ciò che mostriamo nei diversi ambienti, fisici e digitali.
La dimensione onlife ha trasformato profondamente il modo in cui ci percepiamo e ci raccontiamo: non esiste più una netta separazione tra il sé “reale” e quello “digitale”.Viviamo all’interno di ambienti ipermediati, dove la nostra identità si plasma attraverso interazioni costanti, feedback immediati, narrazioni condivise.Questo non è necessariamente un male, ma implica una maggiore complessità.Oggi, formare un’identità solida richiede anche la capacità di orientarsi nei linguaggi del web, di riconoscere le dinamiche dei social, di distinguere tra rappresentazione e realtà. È una sfida che riguarda in primo luogo il mondo educativo, chiamato a supportare i giovani in questo processo di costruzione del sé dentro e fuori la rete».
• Cosa rischiamo di perdere e cosa possiamo guadagnare?
«Il rischio più grande è quello di smarrire la profondità: nelle relazioni, nei pensieri, nei sentimenti.
La velocità e la frammentazione tipiche dell’ambiente digitale possono portare a un impoverimento emotivo e cognitivo, dove tutto diventa istantaneo, semplificato, filtrato.Ma accanto a questi rischi, esistono anche grandi opportunità.La dimensione onlife offre spazi inediti di espressione, partecipazione e creatività.I giovani hanno oggi la possibilità di comunicare, apprendere e relazionarsi in modi che le generazioni precedenti non potevano nemmeno immaginare.La vera sfida è guidarli verso un uso consapevole e critico di questi strumenti, affinché la tecnologia non diventi un fattore di dipendenza o isolamento, ma uno spazio di crescita, dialogo e consapevolezza.In questo senso, educare all’onlife significa anche insegnare a riconoscere e valorizzare ciò che ci rende autenticamente umani».
Ruolo di scuola e famiglia
• Qual è oggi la più grande sfida per scuola e famiglia nel crescere cittadini consapevoli?
«La sfida più complessa è quella di ricostruire un’alleanza educativa solida e coerente, capace di rispondere ai cambiamenti imposti dall’era digitale.
Spesso scuola e famiglia si trovano ad affrontare in solitudine i problemi legati all’uso delle tecnologie, senza una visione condivisa.Eppure, solo un’azione coordinata può accompagnare le nuove generazioni a diventare cittadini critici e consapevoli.
Oggi, più che mai, educare significa anche abitare gli stessi linguaggi, comprendere le stesse dinamiche, sapersi orientare negli stessi spazi, reali e virtuali.Bisogna costruire un nuovo patto educativo che non si basi sulla contrapposizione, ma sulla corresponsabilità: adulti che non temano il digitale, ma che sappiano interpretarlo e usarlo come strumento di crescita, promuovendo autonomia, etica e spirito critico».
• Vedi più rischi o opportunità nel digitale?
«Il digitale è un ambiente ambivalente: può rappresentare un’opportunità di empowerment e sviluppo personale,, oppure trasformarsi in un fattore di controllo e limitazione, a seconda di come lo si vive.
I rischi esistono, e sono concreti: dalla disinformazione alla dipendenza, dalla perdita di attenzione all’isolamento sociale.Tuttavia, questi pericoli non risiedono nella tecnologia in sé, ma nel modo in cui viene integrata – o subita – nella quotidianità.Le opportunità, d’altro canto, sono enormi: accesso al sapere, condivisione, inclusione, innovazione didattica.Il punto è costruire una cultura digitale matura, che sappia vedere oltre il fascino delle novità e promuovere una cittadinanza consapevole.Non si tratta di demonizzare né di esaltare il digitale, ma di educare a una presenza attiva e critica, capace di trasformare l’uso della tecnologia in un’occasione di crescita individuale e collettiva».
Criticità culturali e sociali
• Spesso si parla di “nativi digitali” come se fossero automaticamente competenti: quanto è vero e quanto è un mito?
«È uno dei miti più diffusi e più preoccupanti.L’idea che i giovani, solo per il fatto di essere cresciuti con la tecnologia, siano automaticamente competenti, è fuorviante.
I cosiddetti “nativi digitali” sono spesso abili nell’uso tecnico degli strumenti – sanno usare app, social, dispositivi – ma questo non coincide con una reale competenza digitale.Quello che spesso manca è la consapevolezza critica: comprendere le logiche che governano le piattaforme, riconoscere le dinamiche di potere, leggere i messaggi in profondità.Senza un’educazione mirata, i ragazzi rischiano di essere consumatori passivi, esposti a manipolazioni, stereotipi e dipendenze.Il compito degli adulti non è quello di rincorrere i giovani sul piano tecnologico, ma di fornire loro strumenti culturali per interpretare il mondo digitale in cui vivono».
• Il problema è la tecnologia o l’uso che ne facciamo?
«Il vero problema non è la tecnologia in sé, ma il contesto culturale in cui la utilizziamo e le finalità che le attribuiamo.
Ogni innovazione porta con sé delle implicazioni, ma siamo noi a decidere come integrarla nella nostra vita.Il rischio è quello di abdicare al pensiero critico, delegando alle macchine e agli algoritmi decisioni che dovrebbero rimanere umane.
In questo senso, l’uso che facciamo della tecnologia riflette le nostre scelte valoriali: possiamo usarla per includere o escludere, per informare o disinformare, per crescere o per fuggire dalla complessità. È qui che entra in gioco l’educomunicazione: promuovere una cultura dell’uso responsabile e riflessivo dei media, capace di formare cittadini in grado di abitare lo spazio digitale senza esserne sopraffatti».
Sguardo al futuro
• Come immagini la scuola e la comunicazione educativa tra dieci anni?
«Immagino – e auspico – una scuola capace di trasformarsi in un vero laboratorio di cittadinanza digitale, in cui l’educazione e la comunicazione siano integrate in modo strutturale.Non più solo trasmissione di contenuti, ma costruzione di ambienti di apprendimento dialogici, inclusivi, capaci di sviluppare senso critico, autonomia e responsabilità.
La scuola del futuro dovrà essere pronta a confrontarsi con l’intelligenza artificiale, la realtà aumentata, gli ambienti immersivi: non per rincorrere la tecnologia, ma per governarla con competenza pedagogica.Sarà una scuola meno verticale e più partecipativa, dove il docente non è più solo “colui che sa”, ma un facilitatore di processi, un mediatore culturale.La comunicazione educativa sarà sempre più relazionale, etica, centrata sull’ascolto e sulla co-costruzione di significato.In un contesto così complesso, la scuola resterà un presidio fondamentale per dare senso al cambiamento e non subirlo».
• Se dovessi dare un solo consiglio a un genitore e un solo consiglio a un insegnante, quali sarebbero?
«A un genitore direi: non delegare l’educazione digitale alla tecnologia o alla scuola, ma partecipa attivamente, con curiosità e ascolto.
Anche se i linguaggi o i codici possono sembrare distanti, il dialogo resta lo strumento più potente per accompagnare i figli nel loro percorso di crescita.Non serve essere esperti di tecnologia, ma essere presenti, disponibili e disposti a imparare insieme.A un insegnante, invece, direi: non temere il cambiamento, ma abbraccialo con spirito critico e responsabilità.L’innovazione non è solo tecnica, è prima di tutto culturale.Sperimentare nuovi approcci comunicativi, aprirsi al confronto con gli studenti, costruire relazioni autentiche: questo è il vero cuore della didattica contemporanea.Un insegnante che comunica bene, educa meglio».
Lato personale
• C’è un libro, un film o una persona che ha profondamente influenzato il tuo pensiero?
«Molti testi e figure hanno inciso nel mio percorso, ma se dovessi individuarne una, direi che il pensiero di Marshall McLuhan ha rappresentato una svolta.
Il suo approccio alla comunicazione come estensione del corpo umano, come ambiente che modella il nostro modo di percepire il mondo, è ancora oggi incredibilmente attuale.Come sociologo della comunicazione, ho sempre trovato nel suo sguardo una chiave preziosa per leggere la trasformazione dei media e dei processi culturali.
A questo si affianca l’influenza dei lavori di studiosi più recenti, come Manuel Castells o José van Dijck, che hanno saputo analizzare con lucidità la rete, la mediatizzazione e le logiche delle piattaforme.Ho avuto anche l’onore di conoscere personalmente Zygmunt Bauman, il cui pensiero sulla società liquida ha arricchito profondamente la mia riflessione sulle trasformazioni sociali e comunicative del nostro tempo.Ma a influenzarmi profondamente è anche l’incontro quotidiano con le persone: studenti, docenti, genitori. È nell’ascolto dei loro vissuti che la teoria si confronta con la realtà e si rinnova».
• Come vivi tu personalmente la dimensione onlife?
«Cerco di viverla con consapevolezza, sapendo che la distinzione tra online e offline oggi non regge più.La mia attività professionale – tra docenza, ricerca e divulgazione – si muove quotidianamente su più piani comunicativi: l’aula fisica, i social network, le piattaforme di formazione, i media tradizionali.
Ma questo non significa essere costantemente connessi, quanto piuttosto saper riconoscere il valore del tempo, della soglia, della presenza.La dimensione onlife richiede equilibrio: sapere quando è il momento di partecipare e quando quello di rallentare, per riflettere, per ascoltare, per pensare.Per me, vivere onlife significa essere dentro il flusso della comunicazione senza esserne travolti, mantenendo sempre uno sguardo critico e un’etica della relazione. È un esercizio continuo, personale e professionale, che richiede responsabilità, ma anche apertura e umiltà».
Parlare con Francesco Pira è sempre un’esperienza che arricchisce: non solo per la profondità delle sue analisi, ma per la capacità di trasformare concetti complessi in riflessioni concrete e utili a tutti, dal genitore all’insegnante, dallo studente al cittadino digitale.In un’epoca in cui il tempo scorre veloce e le informazioni ci travolgono, la sua voce ci ricorda che educare a comunicare non è un compito opzionale, ma una responsabilità collettiva.E come amica, non posso che essere orgogliosa di vedere come il suo lavoro continui a lasciare un segno, costruendo ponti tra il mondo accademico e la vita reale.Perché, come insegna la sua “onlife”, il futuro è già qui: sta a noi imparare a viverlo con consapevolezza.Ringrazio di cuore Francesco Pira non solo per il tempo che ha dedicato a questa conversazione, ma soprattutto per la generosità con cui ha condiviso idee, esperienze e riflessioni.La sua capacità di osservare il mondo con sguardo critico, ma sempre costruttivo, è un dono raro e prezioso.
La buona educomunicazione.
Scuola e famiglia, un approccio sociologico nella nostra nuova vita onlife non è solo un libro: è una bussola per orientarci in un presente in cui reale e digitale si intrecciano indissolubilmente.Un testo che parla a genitori, insegnanti, studenti, professionisti della comunicazione… e a chiunque voglia costruire relazioni più consapevoli e autentiche.Invito tutti a leggerlo, non come semplice manuale, ma come compagno di viaggio in questo tempo complesso, in cui educare a comunicare è forse la più grande sfida – e il più grande atto d’amore – che possiamo compiere
Mariella Musso – Giornalista pubblicista / Vivicentro
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