Mentre iniziano le consultazioni al Quirinale, Renzi deve fare i conti con le correnti dentro il Pd: le minoranze che fanno capo a Franceschini, Orlando, Bersani e D’Alema si compattano e premono per un governo democratico fino al 2018 in modo da evitare le elezioni come invece chiede Grillo.
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a Renzi deve fare i conti con un Capo dello Stato che intende svolgere senza interferenze il suo ruolo. Renzi lo ha capito e infatti, da Pontassieve, ci tiene a far sapere: «Col Quirinale c’è un patto di ferro». Ma deve fare i conti soprattutto con la novità che temeva e della quale lui stesso non ha ancora tutte le coordinate: è in atto un autentico terremoto all’interno del Pd. Un terremoto destinato a ridisegnare la geografia del partito. Per effetto di una doppia novità. La prima: una parte della maggioranza «renziana» – la corrente di Dario Franceschini e quella del Guardasigilli Andrea Orlando – ha fatto un passo di lato, rompendo politicamente con il segretario-presidente. Rottura significativa perché le due correnti hanno una forte presenza nei gruppi parlamentari, tanto è vero che sono «franceschiniani» entrambi i capigruppo, quello dei deputati Ettore Rosato e quello dei senatori Luigi Zanda
Ma la seconda novità è la più corposa, la più pericolosa per Renzi: il duo Franceschini-Orlando ha stabilito in queste ore un patto di consultazione con la minoranza che fa capo a Pier Luigi Bersani e anche, ecco l’ultima sorpresa, con Massimo D’Alema, molto attivo nella cucitura. Una sorpresa perché da anni ormai le due maggiori personalità della sinistra Pd, Bersani e D’Alema, avevano rotto politicamente. Certo, è presto per capire se il nuovo asse di centro-sinistra abbia i numeri per mettere in minoranza il leader. Per il momento, non all’interno della Direzione del Pd, che infatti Renzi ha voluto in seduta permanente, elevandola così a organo deliberante durante la crisi di governo. Più incerta la situazione nei gruppi parlamentari. La corrente di Franceschini (che raggruppa in prevalenza ex popolari, ma anche personalità ex ds come Piero Fassino e la ministra Roberta Pinotti) conta su una novantina di deputati (su 301), ai quali vanno aggiunti i deputati vicino ad Orlando (una quindicina) e quelli delle minoranze, venticinque. Si arriva a malapena a 140 deputati, dunque ne mancherebbero una decina per superare la quota non soltanto simbolica del 50%. Stesse proporzioni al Senato. Anche perché con Renzi sono ancora schierati Matteo Orfini e il ministro Maurizio Martina.
Per Renzi un occhio al partito e un occhio al Quirinale. Al termine della prima giornata di consultazioni, il presidente dimissionario ha preso atto che si sta aprendo la strada per un governo guidato da una delle personalità che lui stesso ha fatto trapelare 24 ore fa: il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan o quello degli Esteri Paolo Gentiloni. Due nomi che Renzi ha «calato» per verificarne l’«effetto» e anche per chiudere la strada alla candidatura di Dario Franceschini. Ma su Padoan, lo stesso Renzi ha molte riserve – troppo collegato a D’Alema, dicono a Palazzo Chigi – mentre su Gentiloni, che pure ha l’aplomb «giusto», si stanno annidando le perplessità della fronda interna, perché troppo vicino a Renzi. Ecco perché, nelle ultime ore sono risalite le quotazioni di Graziano Delrio, figura di possibile compromesso per un governo a tempo. Fino ad elezioni che avrebbero già una data: 4 giugno 2017.
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