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Castellammare di Stabia

Nelle periferie dove nasce il grande scontento: gli esclusi in rivolta contro il centro

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La fotografia fa parte di “Milano hinterland/fuori 90”, di Pierfrancesco Celada
La geografia del potere va ridisegnata.

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a frattura fra centro e periferia costituisce una delle più importanti spiegazioni del comportamento politico. Definita, con chiarezza, da Stein Rokkan, insieme a Seymour Lipset (fra gli anni Sessanta e Settanta). I quali, però, facevano riferimento, principalmente, alla dimensione territoriale. Alle tensioni delle periferie, nella ricerca di difendere la loro autonomia e la loro identità di fronte all’egemonia del centro. Tuttavia, ai nostri giorni, il segno della periferia va oltre. Evoca la dimensione sociale, insieme a quella territoriale. D’altronde, periferie sociali e territoriali, inevitabilmente, si incrociano e si influenzano reciprocamente. Ma con effetti diversi. La periferia può delineare i luoghi lontani ed esclusi dalla geografia del potere e della cultura. Oppure, in alternativa, le sedi dove i cambiamenti avvengono senza strappi, in modo meno vistoso, le “province” dove si riesce a produrre, a lavorare, a crescere economicamente senza traumi, senza rinunciare a vivere bene. Restando nell’ombra. In periferia, appunto. Dov’è più semplice agire e reagire, limitando le interferenze esterne.

Tuttavia, ciò che sta succedendo in questi tempi non riflette dipendenza, né distacco ma, per certi versi, una rivolta delle periferie territoriali, economiche, sociali. Le quali rinunciano alla strategia dell’attesa per emergere in modo appariscente. Servendosi di media e attori ad alta visibilità. Leader, partiti, movimenti. Agitati e attivi. Si tratta di una tendenza globale che spiega alcuni dei fenomeni politici più rilevanti di questo periodo.

Negli Stati Uniti, Donald Trump ha intercettato la paura delle classi agiate bianche contro la minaccia delle altre componenti dell’universo multietnico americano. Inoltre alimenta la paura di nuove migrazioni, che spingano ancor più in basso, ancor più in periferia, la classe media.

Così, in Gran Bretagna, il motore della Brexit è certamente il sentimento di declino delle aree extraurbane inglesi, dei settori sociali colpiti dalla crisi, dei più anziani. Che imputano all’Europa — “centrata” sulla Germania — la propria crescente perifericità. E vorrebbero isolarsi di più. Se non possono più essere centro, meglio non diventare periferia. Europea. Scozia e Irlanda del Nord, invece, hanno votato no alla Brexit. Perché si sentono periferia di Londra.

D’altronde, almeno in Europa, ormai da molto tempo classe operaia e ceti esclusi — dal mercato del lavoro — non votano più per la sinistra ma per i partiti di destra. E per le forze politiche definite populiste. In Francia per il Front National di Marine Le Pen, primo partito della classe operaia, tradizionalmente forte nelle aree periferiche — di confine — a sud e nel nord est. In Italia la classe operaia (ciò che ne resta) fino a ieri si era avvicinata alla Lega. Ma oggi vota, in misura crescente, per il Movimento Cinque Stelle. In Italia, d’altronde, la maggioranza della popolazione — il 53 per cento — si sente e si definisce di classe sociale bassa e medio-bassa. Fra gli elettori del M5S la percentuale sale al 60 per cento. Insomma la periferia della società preferisce le scelte antipolitiche e impolitiche.

Peraltro, se poniamo attenzione sulle recenti elezioni amministrative, la crescente centralità della periferia diventa evidente. A Torino la neo-sindaca, Chiara Appendino, si è imposta — soprattutto — nei quartieri periferici. Fra i giovani. Mentre Fassino resiste al centro e in collina. Fra i più anziani. La frattura generazionale è, dunque, divenuta importante. Anche se con effetti diversi. Privati di futuro, i giovani se ne vanno. Oppure votano contro. Com’è avvenuto in Spagna, dove si vota proprio oggi. Là, i più giovani si sono rivolti a Podemos (oggi alleato di Izquierda Unida). Perché, rispetto alle politiche dei partiti maggiori (Partito socialista e Partito Popolare), si sentono periferici.

Per tornare in Italia, a Roma, nelle amministrative, Virginia Raggi ha dominato a Ostia e nei quartieri periferici più popolosi. Mentre Roberto Giachetti resiste solo nel centro storico e nei quartieri borghesi, Parioli e Nomentano. A Napoli, infine, Luigi De Magistris, portabandiera della periferia alla conquista dei centri, ha vinto in tutti i quartieri, a partire dal Vomero. Spingendo i concorrenti, per prima la candidata del Partito democratico, Valeria Valente, non in periferia, ma fuori dalla città. Nel complesso, queste elezioni amministrative disegnano un’Italia senza radici, come abbiamo scritto in sede di analisi del risultato. Un paese dove le specificità (politiche) territoriali si stanno scolorendo. D’altronde, il M5S, dichiarato vincitore, non ha radici. Al di là delle due metropoli dove ha vinto, si è affermato in altre diciassette città maggiori distribuite in tutto il territorio. Mentre il Pd si è perduto. Non solo perché ha perduto in metà delle città maggiori dove prima governava: 45 su 90. Ma perché è arretrato soprattutto nel suo territorio. Nelle regioni rosse del Centro. La Lega “nazionale” di Salvini, a sua volta, ha perduto a Varese. La sua patria. E non è riuscita a proseguire la propria marcia oltre il nord. Da parte loro, i Forza-leghisti non sono riusciti a riprendersi Milano. La loro capitale storica. E mitica.

Così si delinea la mappa di un paese incerto e instabile. Senza colori. Che non ha più capitali. Oppure ne ha troppe. Perché la periferia si è allargata dovunque. Da nord a sud. Ovunque, in Italia, è periferia. Dovunque cresce la voglia di cambiare. Di diventare centro. Oppure, di ribellarsi al centro. Per sfuggire al declino. Il vento del cambiamento, in fondo, ha questo significato. Evoca il rifiuto di rassegnarsi: a scivolare verso la periferia. E a rimanere lì. Senza speranza.

vivicentro.it/politica –  repubblica / Nelle periferie dove nasce il grande scontento: gli esclusi in rivolta contro il centro ILVO DIAMANTI


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