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Castellammare di Stabia

“Mia madre, dolce e coraggiosa lottò tutta la vita per Peppino”

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Un’immagine del film “Felicia Impastato” (ansa)

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allo sconcerto per la maschera di Riina jr all’emozione per Felicia. In quei numeri da capogiro, 27 per cento di share, sette milioni su RaiUno a rivivere nei gesti e nelle parole di Lunetta Savino la storia della mamma di Peppino Impastato, Giovanni, il figlio, ci vede un’altra Italia. Che si appassiona e si commuove per una donna minuta, determinata nel rifiuto della vendetta, ferma nell’attesa di giustizia, implacabile nell’accusa ai boss Badalamenti e Palazzolo che le hanno tolto un figlio restituendole un “sacchetto di resti”.

Se lo aspettava?
“Non così anche se ero sicuro che avevamo fatto un buon lavoro anche con l’associazione Casa Memoria”.

A cosa attribuisce il successo?
“Il clamoroso infortunio di quell’intervista di Vespa al figlio di Riina ha giocato un grande effetto. Abbiamo mostrato un altro modo di essere famiglia in terra di mafia”.

Lei, proprio per quell’intervista, aveva scritto su “Repubblica ” di meditare una diffida alla Rai sulla messa in onda della fiction? Lo avrebbe fatto?
“Non contestavo il diritto di un giornalista di fare le interviste che crede, ma la possibilità data al figlio di un boss stragista di dire la sua in quel modo, accreditando un modello di devozione filiale che è l’esatta antitesi della nostra storia”.

Voi, famiglia di mafia, che rompete lo schema?
“Dopo la morte di mio zio, il capomafia Cesare Manzella, tanto Peppino quanto mia madre rompono con quel mondo. Mia madre in quella fase sta vicino a Peppino, poi, rinunciando alla vendetta, consegna la sua memoria alla storia”.

Lei ha lavorato alla fiction da consulente, è soddisfatto dell’aderenza alla realtà?
“Comprendo le esigenze dello spettacolo, ma il risultato è abbastanza fedele”.

Perché la storia di Felicia non è solo la storia di una madre che chiede giustizia?
“È un pezzo di storia italiana. L’omicidio di mio fratello, i depistaggi, l’ostinazione degli amici, l’incrocio con altre vittime, i giudici Costa e Chinnici, il giornalista Francese, l’ostinazione di pochi, i magistrati Antonio Caponnetto, Giancarlo Caselli, Franca Imbergamo, a cercare la verità. E su tutto l’impegno di Umberto Santino, il fondatore del centro intitolato alla memoria di mio fratello. È una storia di resistenza civile”.

C’è voluto il film ” I Cento Passi”, per far conoscere la storia di Peppino, ora il racconto è completo?
“Sentivo il peso di dover raccontare Felicia. Ma andiamo avanti anche nella ricerca degli altri pezzi di verità”.

E lei da sua madre cosa ha ricevuto?
“Era una donna forte e dolce, che soffriva in silenzio percuotendosi la testa fin alla sfinimento davanti alla foto di Peppino ma che sapeva proteggerci. Mi ha sollevato dal più gravoso dei compiti: spiegare ai miei figli cosa fosse accaduto a mio fratello. Io non riuscivo”.

Di fronte alla caduta di tante icone dell’antimafia cosa avrebbero pensato Peppino e sua madre?
“Che non c’è antimafia se non dal basso, nell’opposizione quotidiana, lontano dalla ribalta e dalle seduzioni del potere e dei soldi”.

C’è qualche rischio di abbaglio anche nelle fiction?
“La mitizzazione del male è il principale, ma come Peppino sono convinto che funzioni l’arma dell’ironia. I boss sono e vanno resi ridicoli”.

Sullo sfondo, Cinisi, il suo paese, che cambia ma a fatica, è così?
“Veniamo dallo strapotere dei boss che portavano anche i soldi della droga, da una chiesa e da una scuola che erano indifferenti. La strada è lunga e arrivano segnali pessimi: il casolare dove è stato ucciso Peppino versa in abbandono e a due anni dalla solenne promessa di esproprio da parte del presidente Crocetta, nulla è stato fatto. E c’è chi vagheggia di farci perfino un museo a pagamento”.

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