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Castellammare di Stabia

Stalin, Tienanmen, Erdogan: la furia della vendetta

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La foto dei soldati seminudi e legati dopo il tentato golpe è la testimonianza di un’umiliazione che evoca vecchi fantasmi

Stalin, Tienanmen, Erdogan: cosa accomuna questi tre? La risposta sembra darcela il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, nel suo articolo di oggi: Turchia, la vendetta e la paura, nel quale analizza, per l’appunto, il dopo golpe in Turchia e le mosse/azioni di Erdogan: La vendetta selvaggia – scrive Mauro –  demonizzando intere categorie sociali e cancellando fino all’annientamento le persone che stanno sotto le toghe giudiziarie, le grisaglie dei prefetti o le divise militari, scelte come simbolo del nuovo nemico del popolo.

Ma leggiamo tutto l’articolo di Mauro. Buona lettura

Turchia, la vendetta e la paura di EZIO MAURO

L’UNICO segno di riconoscimento sono i capelli scuri dei vent’anni, con la sfumatura alta dei soldati. Nient’altro. Centinaia di uomini ammassati sulla sabbia a torso nudo, piegati in avanti perché le manette tengono le braccia imprigionate dietro la schiena, costretti a stare in mutande e a capo chino come bestie prigioniere, in una palestra militare dalle finestre sbarrate. Non c’erano i social network a Tienanmen quando dopo aver oscurato l’antenna della Cnn il regime fece scattare la repressione selvaggia contro i ragazzi che avevano occupato la piazza, e il lavoro sporco potè compiersi nel buio. C’era solo il terrore quando Stalin ordinò le deportazioni e le uccisioni di massa della grande purga sovietica. Non c’era né Internet né una pubblica opinione quando Franco ordinava la garrota per i dissidenti “per liberarli dal peso della loro stessa malvagità purificando la Spagna”. Oggi quella foto postata su Twitter dalle caserme di Erdogan documenta lo stesso meccanismo, in circostanze diverse e in mezzo al XXI secolo. Il potere che dopo essersi difeso si vendica selvaggiamente demonizzando intere categorie sociali e cancellando fino all’annientamento le persone che stanno sotto le toghe giudiziarie, le grisaglie dei prefetti o le divise militari, scelte come simbolo del nuovo nemico del popolo.

Torna, invocato dal potere, il concetto di “popolo”, normalmente evocato là dove non esiste il “cittadino”, soggetto autonomo, libero, titolare di doveri e diritti. Torna la purga, la vecchia cistka sovietica, un’operazione che per definizione è senza giustizia e fuori misura perché mescola paura e vendetta, e mentre dovrebbe re-insediare con la forza un potere minacciato, in realtà rivela il terrore del Palazzo per il nemico nascosto, l’insicurezza di un regime che non sa trovare la sua legittimità se non nel pugno di ferro universale, la violenza che certifica l’instabilità permanente mentre vorrebbe sconfiggerla. Torna soprattutto l’umiliazione fisica e morale dei prigionieri trasformati nell’immagine materiale e pedagogica della sconfitta e come tali “esposti” perché il popolo veda, impari e capisca: la foto dei prigionieri è la documentazione perfetta della distanza incommensurabile che può correre tra i vincitori e i vinti anche nella modernità in cui viviamo, quando si è fuori dallo stato di diritto. Il vincitore è puro potere che perpetua se stesso, proteggendosi anche contro le ombre e con qualunque mezzo, perché ha prevalso e perché avrà sempre più paura. Il vinto è ridotto a puro corpo, da legare, ammassare e colpire, pur di controllarlo, in attesa di poterlo magari giustiziare domani, perché l’ossessione della purificazione non ha limiti, come l’angoscia. D’altra parte il presidente Erdogan ha parlato di una necessaria “pulizia” all’interno di tutte le istituzioni dello Stato, per liberarle dal “virus” della rivolta.

Ritorna, con la pretesa di sterilizzare la società infetta, l’incubo contabile con cui il potere prova a rassicurare se stesso spaventando i sudditi. Non c’è altro, quando la politica viene consegnata in caserma, come in Turchia. Con Istanbul presidiata da 2 mila uomini dei reparti speciali, i caccia che pattugliano lo spazio aereo delle capitali, gli elicotteri militari che non possono decollare senza permesso, il premier annuncia che gli arrestati sono 7.543, tra cui 100 poliziotti, più di 6 mila soldati, 650 civili, 755 giudici e procuratori, 103 ammiragli e generali, due giudici della Corte Costituzionale. Ma intanto 1.500 funzionari delle Finanze sono stati sollevati dal loro incarico, insieme con 30 prefetti e 8.777 dipendenti degli Interni, tra cui 7.899 poliziotti che hanno dovuto riconsegnare pistola, manganello e distintivo.

È la somma del ritorno all’ordine sventolata dal Palazzo, una somma parziale visto che il ministro della Giustizia Bozdag promette che ci saranno altri 6 mila arresti, “perché continueremo a fare pulizia”. Ed è la misura dell’arbitrio e della sproporzione, perché nessuno è in grado di controllare il regime a cui sono sottoposti gli arrestati, le condizioni in cui si svolgono gli interrogatori, la misura della reazione del potere all’offesa subita col tentativo di golpe, le reali possibilità di difendersi e discolparsi degli incarcerati in massa. Ciò che è chiaro è il richiamo di fedeltà assoluta al Sultano che arriva da queste operazioni. Non c’è spazio per distinzioni, l’emergenza continua, il pericolo è in agguato, lo Stato dev’essere un blocco unico compatto nella difesa del potere sfregiato ma superstite, dunque autorizzato a colpire. La decimazione dell’esercito cancella ogni eredità laica riducendolo a guardia reale. L’epurazione della polizia – da tempo inquieta – suona come l’ultimo richiamo all’ordine. Soprattutto, l’accanimento carcerario nei confronti dei giudici e dei Capi delle procure riscrive nei fatti codici e costituzione, imponendo fedeltà prima che giustizia, guardando alla salvezza del regime più che a quella del diritto.

A questo punto, con la pistola puntata alla tempia della magistratura, chi giudicherà i golpisti e in nome di quale legalità? Torna l’ombra dei processi politici, tipica dei regimi autoritari e totalitari. Se salta di fatto la divisione dei poteri, chi controllerà il presidente e l’esecutivo? Con quale legge, al riparo di quale Costituzione? Con quale opinione pubblica, dopo che i giornali liberi sono stati annientati e le televisioni occupate e controllate? Mentre i tribunali certamente chiederanno conto ai colonnelli dei carrarmati portati in strada nella notte dell’intentona , chi chiederà conto ad Erdogan e al suo governo di quella lista già pronta, fulminea, di magistrati da arrestare, prefetti da destituire, ammiragli da ammanettare, funzionari da epurare? Non è nemmeno necessario arrivare alle conclusioni interessate del grande nemico del Sultano, il predicatore Fethullah Gülen, che dall’America accusa Erdogan di essersi confezionato il golpe per poter annientare i suoi avversari interni: basta osservare la reazione del potere per capire che un vero e proprio “controgolpe” è in atto in Turchia. Per poi aggiungere, necessariamente, che quel “controgolpe” è fuori da qualsiasi canone delle democrazie occidentali, che anche quando sono sotto attacco sanno di avere il diritto di difendersi, ma insieme con il dovere di rimanere fedeli a se stesse, e ai loro principii.

E qui, sta tutta l’ambiguità dell’Europa. La Ue e i suoi governi hanno aspettato alla finestra la notte del golpe, per capire se i militari erano in grado di spazzare l’equivoco e la grandeur di Erdogan, senza scegliere tra le urne che gli avevano dato il potere un anno fa e i carrarmati che volevano toglierglielo. Oggi l’Europa, condizionata dal negoziato appena firmato con Ankara per il contenimento dei due milioni di profughi siriani, balbetta davanti alla minaccia turca di reintrodurre la pena di morte e di fronte alla vendetta del Sultano, che si sta dispiegando sotto i nostri occhi, fuori da ogni codice. È ora di dire che noi viviamo in democrazie deboli e malandate: ma una “democratura” autoritaria, finché rimane tale e lega le sue vittime nude come animali in gabbia, non può entrare in Europa.

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