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Castellammare di Stabia

Il silenzio rosa, scenari di violenza nella storia di genere

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Uno degli scopi principali di un giornalista è veicolare informazioni, nella maniera più esatta e nella maniera più consona al contesto di cui si parla. Ogni esperto del settore sa però che quando si parla di alcune tematiche, risulta essere più difficile mantenere la freddezza e la lucidità di un “inaugurazione del nuovo centro sportivo”. Questo è quello che sta accadendo ora, dovendo doverosamente aprire una parentesi su uno degli argomenti che fa più “macabra moda” nel nostro secolo: la violenza sulle donne. Eppure, è sbagliato pensare che sia una storia di oggi, perché gli abusi ed i soprusi nella storia di genere hanno origini profonde, sin dall’inizio dei tempi. Partendo dal libro sacro della Genesi, quando fa riferimento al Peccato Originale: Eva è il simbolo della violazione e della trasgressione ma dietro la colpa che porta, cioè quella di aver mangiato una mela simbolo del male, esiste l’idea d’inferiorità della donna, più vulnerabile alla tentazione e  punita sin da subito con il dolore: ‘Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figliuoli; i tuoi desideri si volgeranno verso il tuo marito, ed egli dominerà su te’. (Genesi, v. 16) Proseguendo nel nostro viaggio dell’orrore, approdiamo a Platone, che apertamente dichiara che la donna è un essere inferiore rispetto all’uomo e per Aristotele è un “essere menomato”, cioè privata dell’organo, quindi sempre inferiore. Ne deriva l’idea di una sottomissione totale dell’individuo femmina nei confronti dell’uomo. Questa visione si ritrova anche nelle parole di San Paolo che considerava la donna inferiore all’uomo, sottomessa ad esso ed incapace di imporre la sua volontà o meglio le viene fatto divieto di esprimersi. Vi siete mai chiesti perché le donne non partecipano alle funzioni sacerdotali? Ecco la motivazione! Nel Rinascimento, nonostante l’ingegno espresso nel campo artistico dai grandi maestri che hanno predominato la scena e la grande volontà di rinvigorimento e svecchiamento la situazione non cambia. Ciò ci porta fino al 600 dove emblematico è il caso della nota pittrice Artemisia Gentileschi, figlia del celebre pittore Orazio Gentileschi. Artemisia mostrò sin da subito le sue doti come pittrice ed il padre entusiasta del talento della figlia decise di metterla sotto la guida di un mentore,  Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil con cui collaborava alla realizzazione della loggetta della sala del Casino delle Muse, a palazzo Rospigliosi. Tassi era un grande talento, ma il carattere burbero ed iroso contraddiceva la sua immensa dote artistica. Decise, comunque, di accettare Artemisia. Un giorno, approfittando dell’assenza di Orazio, Agostino abusò di Artemisia nella stessa casa dei Gentileschi. La descrizione lasciata dalla ragazza fa rabbrividire: « Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne ». Dopo l’accaduto Tassi prometteva di sposare la ragazza, in quanto era disonore arrivare al matrimonio non vergine e si poteva anche per la legge “sanare” la  violenza facendo il macabro “matrimonio riparatore”. D’altronde, all’epoca, si pensava che la violenza sessuale ledesse una moralità, senza offendere la persona, nonostante questa venisse coartata nella sua libertà di decidere della propria vita sessuale. Artemisia illudendosi potesse avvenire il matrimonio, decise di continuare a giacere con il pittore, nonostante il padre fosse stato avvisato sin da subito dell’accaduto. Tassi però mentiva: era già legato matrimonialmente e quindi quello ai danni di Artemisia era un assoluto abuso. Artemisia, secondo la prassi, fu inoltre:  obbligata numerose volte a visite ginecologiche lunghe e umilianti, durante le quali il suo fisico fu esposto alla morbosa curiosità della plebe di Roma e agli attenti occhi di un notaio incaricato di redigerne il verbale: le sedute, in ogni caso, accertarono un’effettiva lacerazione dell’imene avvenuta quasi un anno addietro. Per verificare la veridicità delle dichiarazioni rese le autorità giudiziarie disposero persino che la Gentileschi venisse sottoposta ad un interrogatorio sotto tortura, così da sveltire – secondo la mentalità giurisdizionale imperante all’epoca – l’accertamento della verità. Il supplizio scelto per l’occasione era quello cosiddetto «dei sibilli», e consisteva nel legare i pollici con delle cordicelle che, con l’azione di un randello, si stringevano sempre di più sino a stritolare le falangi. Con questa drammatica tortura Artemisia avrebbe rischiato di perdere le dita per sempre, danno incalcolabile per una pittrice della sua levatura. Lei, tuttavia, voleva vedere riconosciuti i propri diritti e, nonostante i dolori che fu costretta a patire, non ritrattò la sua deposizione. Atroci furono le parole che rivolse ad Agostino Tassi quando le guardie le stavano avvolgendo le dita con le cordicelle: «Questo è l’anello che mi dai, e queste sono le promesse!» Fu così che il 27 novembre 1612 le autorità giudiziarie condannarono Agostino Tassi per «sverginamento» e, oltre a comminargli una sanzione pecuniaria, lo condannarono a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione. Com’è prevedibile, lo smargiasso optò per l’allontanamento, anche se non scontò mai la pena: egli, infatti, non si spostò mai da Roma, siccome i suoi potenti committenti romani esigevano la sua presenza fisica in città. Ne conseguì che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, anzi, la sua onorabilità a Roma era completamente minata: erano molti i romani a credere ai testimoni prezzolati del Tassi e a ritenere la Gentileschi una «puttana bugiarda che va a letto con tutti». Impressionante fu anche la quantità di sonetti licenziosi che videro la pittrice protagonista” (Wikipedia) . La concezione della “donna- oggetto” ritorna anche nel Medioevo, forse in maniera ancora di più sottolineata nell’Illuminismo: la donna è il sesso debole, non prova alcun piacere sessuale. In tal proposito Rousseau scrive che l’uomo è il sesso forte, la donna quello debole : da qui l’idea di poter imporre la virile violenza in qualsiasi modo ed in qualsiasi momento. Nell’Ottocento invece si arriva a pensare che il piacere sessuale femminile venga appagato con il parto e con la crescita dei figli, sua unica mansione e che nella vita non esistano per lei altre mansioni o passioni. Ciò è alla base anche del pensiero del regime totalitario, dei fascismi europei del novecento, in particolare quello italiano che immagina la donna come completa schiava dell’uomo e totalmente dedita alla famiglia ai figli. E’ per l’uomo del fascismo un “forno” per generare la stirpe. Infatti, nell’ideologia fascista fondamentale è il concetto di NUMERO, inteso proprio come cifra di bambini volti a rigenerare la stirpe. Insomma, più figli si fanno più grande saranno i seguaci del Duce! Con la guerra, accanto alla “donna del focolare” il concetto di oggetto è sottolineato dall’abuso, anche massivo a volte, da parte dei soldati stranieri sul territorio di donne di qualsiasi età, per soddisfare i propri bisogni sessuali. Enzo Moscato, grande autore del Teatro Napoletano nella sua opera “Luparella, ovvero foto di bordello con Nanà” risalente agli anni Ottanta, fotografa la vita di un bordello arroccato sui Quartieri Spagnoli, dove Nanà, semplice giovane addetta alle pulizie, deve difendere anche in punto di morte una donna dai soprusi di un tedesco che vuole violentarla: siamo di fronte a pura necrofilia aggravata da violenza ed efferatezza contro una donna. Enzo Moscato , parla della Napoli sul palcoscenico creando arte, eppure questa storia non è tutta frutto della fantasia di un grande artista partenopeo: viviamo in preda alla follia omicida di chi, ancora oggi, a distanza di secoli, pensa di esercitare un potere assoluto sulla donna, ancora letta nell’immaginario collettivo come bene dell’uomo. Dopo il fascismo le cose non cambiano : Giampaolo Pansa riporta il numero di 2.365 donne uccise, spesso prima stuprate dai partigiani, di cui si conosce il nome e la vicenda. A cui bisogna aggiungere le centinaia di donne violentate che sono riuscite a sfuggire alla morte e che per un comprensibile senso di pudore hanno taciuto. E quelle picchiate, rapate a zero ed esibite come trofei per la sola colpa di essere fidanzate di soldati fascisti (Congedatidalfolgore.com). Purtroppo, oggi viviamo ancora in un paese che relega la donna alle mansioni e consuetudini domestiche e che mette in un angolo della propria memoria i volti e le parole di quelle donne che questo paese l’hanno cambiato, superando gli uomini se la propria ragione lo richiedeva per far valere la propria intelligenza, sempre con parsimonia ed eleganza. Come riportato nell’articolo di Vivicentro dedicato alle statistiche di femminicidio, i dati registrati dal Rapporto eures in Italia sono raccapriccianti: nel 2016 i femminicidi sono tornati a crescere rispetto all’anno precedente (+5,6%, da 142 a 150), trend sostanzialmente confermato dai 114 casi – più di uno ogni 3 giorni – dei primi dieci mesi di quest’anno. L’incidenza femminile sul numero di vittime totali di omicidi non è mai stata così elevata, 37,1%: nel 2000 si attestava sul 26,4%. Violenza è anche chi sbatte la porta in faccia prima di entrare in un negozio, chi risponde male, chi fa battute con malizia insistentemente, chi usa solo per i propri bisogni fisici illudendo una donna ,come hanno fatto con Artemisia, oppure chi illude in generale , chi offende o demoralizza. Oggi, non bisogna puntare il dito solo contro chi ha ucciso o sporcato il volto delle donne con le mani. Oggi bisogna riflettere sulle parole: esse scivolano, scorrono lungo la schiena e lacerano la carne tagliando le ossa. Le parole tagliano il sorriso. La violenza taglia il sorriso.

A

tutte le donne vittime di violenza.

 

A cura di Annalibera Di Martino

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