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Castellammare di Stabia

Seggio all’ Onu. Che cosa non ha funzionato

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NU – Pareggiare è meglio che perdere. Ieri, alle Nazioni Unite, l’Italia pensava di vincere. Deve accontentarsi di un punto anziché tre. Respiriamo di sollievo, ma dobbiamo pensare a cosa non ha funzionato.

Il compromesso fra Italia e Olanda, un anno a testa in Consiglio di Sicurezza, testimonia del buon senso di Matteo Renzi e Mark Rutte, nel disordine europeo che li circondava.

L’hanno raggiunto ai margini di un Consiglio Europeo kafkiano dominato dalle tensioni sull’uscita del Regno Unito dall’Ue, mentre il mondo reale batteva alle porte con l’attentato di Istanbul, città europea, carta geografica alla mano. Al Palazzo di Vetro il ministro Gentiloni e i nostri diplomatici avevano faticosamente recuperato la manciata di voti di svantaggio. L’Italia può essere moderatamente soddisfatta.

All’Onu l’Assemblea Generale è una cassa di risonanza che ha il pregio dell’universalità e il limite dell’irrilevanza. Contano le agenzie, come l’Alto Commissariato per i Rifugiati, l’Unicef, l’Organizzazione Mondiale della Sanità; contano i Caschi Blu che, dove possono, mantengono la pace; conta il Segretario Generale. Conta soprattutto il Consiglio di Sicurezza, cinghia di trasmissione fra legittimità internazionale e realpolitik delle grandi potenze, del burro e cannoni, delle crisi intrattabili. E’ una democrazia molto imperfetta, in cui i cinque membri permanenti (P5: Russia, Usa, Francia, Regno Unito, Cina) sono molto più uguali degli altri. Non riflette più gli attuali equilibri mondiali; non dà spazio ai Paesi emergenti; è spesso paralizzato dal veto. Ma funziona.

Il seggio non permanente è un riconoscimento di status internazionale. Roma ha un buon albo d’oro. Il gruppo cui apparteniamo (Weog) conta 28 Paesi e ha diritto a due posti. Entrata nell’Onu nel 1955, l’Italia è stata in CdS sei volte, 12 anni su 62. Adesso aggiunge un mezzo mandato annuale nel 2017. Questo risultato è frutto di costante impegno societario, specie nel mantenimento della pace, come in Libano e nel Corno d’Africa, e di assidua azione diplomatica a New York, nei fori multilaterali, nelle capitali di tutto il mondo. Il 2017 ci troverà nella stanza dei bottoni Onu, dove si giocano partite che ci toccano da vicino: Mediterraneo, dalla Libia alla Siria; terrorismo di Isis; confronto fra Russia e Ucraina; migrazioni e rifugiati; Afghanistan e Iraq dove addestriamo le forze armate locali; Iran reintegrato nella comunità internazionale; non proliferazione. E’ in corso un riallineamento mondiale. Medio Oriente, Ankara e Gerusalemme normalizzano i rapporti diplomatici, mentre israeliani e sauditi si scambiano segnali di fumo.

Londra post-Brexit, più eccentrica rispetto all’Europa, non può più assicurare la saldatura atlantica fra Washington ed europei. Unico P5 Ue, la Francia può utilizzare il seggio permanente per compensare sulla scena internazionale il rapporto europeo con Berlino. Il 20 gennaio s’insedierà la nuova amministrazione americana. La Germania non sarà nel Consiglio di Sicurezza. L’Italia, Paese Ue e Nato, può diventare pedina chiave negli equilibri europei e occidentali. Può. Per essere all’altezza dovrà far tesoro della lezione di giovedì. Pensavamo di avere i voti. Su 128 necessari, ne sono mancati 15 alla prima tornata (solo 3 all’Aia); più di 30 nelle successive. Più che errore di calcolo è ottimismo fuorviante nell’interpretare i riscontri che riceviamo. Ci rassicuriamo da soli; trascuriamo, specie all’Ue, la costruzione di alleanze.

Per vincere all’Onu, come insegnava Paolo Fulci, bisogna prendere i voti in Africa, Asia, America Latina. Svezia e Olanda, di fama troppo rigoriste, ne hanno ricevuti più di noi: forse la loro coerenza paga più della nostra innata duttilità. Abbiamo chiuso ambasciate e rubinetti della cooperazione. Per circostanze indipendenti dalla nostra volontà si sono aperti contenziosi bilaterali seri con tre Paesi leader: Brasile, India ed Egitto. Avremo ragione da vendere su tutti e tre, ma non abbiamo saputo isolarli dai rapporti complessivi. Alleati e partner si domandano spesso quanto sia convinto il nostro impegno. Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre, l’Italia ha offerto alla Francia solidarietà verbale, non aiuti militari per alleggerirla in Mali (glieli ha dati la Germania). Né abbiamo innalzato l’asticella contro Isis in Iraq e in Siria. La leadership che rivendichiamo in Libia è finora rimasta sulla carta. Il 2017 ci vedrà in Consiglio di Sicurezza e con la Presidenza G7. Ce ne possiamo servire per rilanciare Europa e Atlantico sotto attacco dall’interno. Restano i nostri assi cardinali ma richiedono una capacità nazionale di visione, strategia ed esecuzione. Una politica estera di piccolo cabotaggio non basta più.

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vivicentro.it/editoriale lastampa/Seggio all’Onu. Che cosa non ha funzionato STEFANO STEFANINI

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