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Russiagate, atto finale: 13 russi indagati. Nuove accuse a Trump

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Russiagate: il procuratore speciale Robert Mueller ha accusato 13 russi e 3 aziende di Mosca di aver cospirato a favore dell’allora candidato repubblicano, Donald Trump, ai danni della democratica Hillary Clinton

13 russi indagati, e nuove accuse a Trump: il Russiagate si avvicina all’atto finale

L’inchiesta sul Russiagate arriva a un primo giro di boa importante, ma non ancora all’atto finale. Il procuratore speciale Robert Mueller ha accusato 13 russi e 3 aziende di Mosca di aver cospirato a favore dell’allora candidato repubblicano, Donald Trump, ai danni della democratica Hillary Clinton. Secondo Mueller, si è trattato di una campagna sistematica e coordinata da parte dei russi per influenzare le elezioni presidenziali degli Stati Uniti a favore di Trump attraverso falsi account sui social media Usa, per “alimentare discordia e denigrare i loro nemici”.

I

n particolare nell’atto d’accusa da metà del 2016 tredici cittadini russi e tre entità di Mosca sono accusati di aver frodato il governo degli Stati Uniti, interferendo con il processo politico. In primo piano emerge il ruolo di della società di San Pietroburgo, ‘Internet Research Agency‘ (Ira), la ‘troll factory’, che, secondo Mueller, cominciò a lavorare già nel 2014 per interferire nelle elezioni statunitensi, usando account falsi sui social media.

E dietro la Ira c’è l’oligarca Yevgeny Prigozhin, amico dai primi anni ’90 di Vladimir Putin, e per l’appunto soprannominato lo “chef di Putin” in quanto la sua catena di ristoranti vede spesso ospite il presidente russo e dignitari stranieri. Prigozhin era peraltro già sotto sanzioni Usa dal dicembre 2016 per aver sostenuto finanziariamente l’invasione russa dell’Ucraina nel 2014.

I particolari ‘inquietanti’ dell’accusa di Mueller

Dall’atto di accusa di Mueller contro i russi emerge un particolare inquietante per il presidente: come ricorda la Cnn, alcuni membri dello staff di Trump hanno ritwittato – inconsapevoli dell’origine criminale del cinguettio creato dalla ‘troll factory’ russa, fabbrica di falsi profili sui social media – i messaggi tesi ad alterare l’esito del voto.

Il vice ministro della Giustizia, Rod Rosenstein, che coordina l’inchiesta, si è affrettato a sottolineare che non sono stati trovati elementi per poter affermare che cittadini “americani abbiano consapevolmente” partecipato al complotto. È sull’avverbio “consapevolmente” che si gioca molto.

Cnn rammenta, tra l’altro, che sia il figlio del presidente, Donald Trump Jr., che la stretta consigliera di Trump in campagna elettorale ed ora alla Casa Bianca, Kellyanne Conway, abbiano ritwittato messaggi del falso account creato dai russi per simulare che fosse quello ufficiale dei repubblicani del Tennessee (“Tennessee GOP”, ossia Grand Old Party del Tennessee). L’obiettivo riuscito fu far credere ai follower che stessero seguendo realmente il loro partito.

L’account ha avuto durante la campagna fino a 100.000 followers. Trump ha commentato la notizia a modo suo: “I Russi hanno iniziato la loro campagna contro gli Usa nel 2014, molto tempo prima che io annunciassi che avrei corso per la presidenza. I risultati dell’elezioni non sono stati alterati. La Campagna di Trump non ha commesso nulla di male – nessuna collusione” con Mosca.

Russia started their anti-US campaign in 2014, long before I announced that I would run for President. The results of the election were not impacted. The Trump campaign did nothing wrong – no collusion!

 

Così su Twitter il presidente che si concentra solo su alcuni aspetti dello sviluppo dell’inchiesta e trascura che, secondo Mueller, i 13 lavoravano su due fronti con un unico traguardo: tra i democratici per screditare Hillary Clinton e favorire il rivale liberal Bernie Sanders, e tra i repubblicani per contrastare i suoi due rivali interni più pericolosi nel Gop, i senatori Ted Cruz e Marco Rubio.

L’unico ad avvantaggiarsi dell’attività dei russi è stato Trump

In sintesi l’unico avvantaggiato, o quanto meno non colpito, da questa maxi campagna di disinformazione sulla rete è stato Trump. Tuttavia, secondo Mueller gli imputati da inizio a metà 2016 “sostennero la campagna presidenziale dell’allora candidato Donald J. Trump per danneggiare Hillary Clinton”. La Internet Research Agency, “cercò di condurre quella che chiamava una ‘guerra dell’informazione'” contro gli Stati Uniti d’America attraverso finti profili sui social media.

 “Intorno a maggio 2014, l’organizzazione programmò di interferire con le elezioni presidenziali statunitensi del 2016, con l’obiettivo dichiarato di diffondere la sfiducia verso i candidati e il sistema politico in generale”. In un appunto del 10 febbraio 2016, agli atti dell’inchiesta, i russi furono invitati a “sfruttare ogni opportunità per criticare Hillary e gli altri (tranne Sanders e Trump, quelli li sosteniamo)”. L’obiettivo era anche entrare in contatto con uomini “inconsapevoli” della campagna di Trump: “Alcuni accusati, fingendo di essere cittadini statunitensi e senza rivelare il loro legame con la Russia, comunicarono con individui inconsapevoli associati alla campagna di Trump e con altri attivisti politici per cercare di coordinare le attività politiche”.

Non solo fake account: i raduni, gli attacchi a Clinton

Il gruppo acquistò pubblicità sui social media, creò account Twitter come se appartenessero a gruppi o persone americani. I russi monitorarono i loro sforzi e alcuni entrarono persino negli Stati Uniti per raccogliere informazioni, usando identità e patenti di guida false, e contattarono i mezzi di informazione per promuovere le loro attività. A settembre 2016, il gruppo ordinò di “intensificare le critiche a Hillary Clinton” perché era stata rilevata un’attività non sufficiente contro la candidata democratica.

Il complotto dei russi fu più audace di quanto finora si era pensato. Il lavorio si spinse oltre la semplice attività sui social media: i russi organizzarono raduni a favore di Trump e arrivarono persino a pagare gli americani per parteciparvi. Una donna fu pagata in Florida per vestirsi da Clinton come carcerata, un altro per costruire una gabbia grande abbastanza da rinchiuderla. E dopo le elezioni, il gruppo organizzò raduni pro e contro-Trump, tra cui una manifestazione “Trump NON è il mio Presidente” a New York la settimana dopo le elezioni e una a Charlotte, nella Carolina del Nord, la settimana seguente.

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/agi

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