span style="color: #ffffff;">campagna presidenziale americana
A sette mesi dall’Election Day la campagna presidenziale americana ci offre un panorama di novità politiche che descrive le trasformazioni in arrivo da Oltreoceano sul fronte delle democrazie rappresentative. La prima riguarda il terreno elettorale: le primarie sono in corso da 70 giorni ed ancora restano contese a dispetto della tradizione che vuole i primi Stati, dall’Iowa al South Carolina, decisivi nella selezione dei candidati e il Super Martedì pressoché definitivo nell’indicare il favorito per la nomination.
Quanto avevamo visto nel 2008 con la lunga maratona democratica Obama-Hillary ora si sta ripetendo in entrambi i partiti con la conseguenza di vedere gli elettori della liberal New York decisivi nella gara repubblicana e le consultazioni nelle roccaforti conservatrici di Alaska e Texas pesare in casa democratica. In altre parole, la sfida presidenziale vede protagonisti contee, elettori e Stati che raramente dal Dopoguerra hanno avuto tale ruolo. Il risultato è un maggiore coinvolgimento popolare e un più evidente entusiasmo politico non solo nel campo degli sfidanti – come avviene per tradizione – ma anche del partito che controlla la Casa Bianca da otto anni.
Alla radice di tale partecipazione – cardine della vitalità di ogni democrazia – c’è l’aspro contrasto che si registra negli opposti campi: Donald Trump e Ted Cruz da un lato come Hillary Clinton e Bernie Sanders dall’altro spaccano i rispettivi partiti su questioni identitarie, valori politici, radici culturali e approcci alla vita pubblica incarnando visioni radicalmente divergenti dell’idea di nazione, per non parlare della missione americana nel mondo. Se Trump promette la demolizione dell’establishment, Cruz crede nella forza della fede, Hillary incarna la realpolitik bipartisan e Sanders rigenera il socialismo delle origini è perché ognuno esprime uno dei tasselli che compongono il variegato mosaico dell’America del dopo-Obama. Per chi ha sfiducia in Washington non c’è alternativa al tycoon con il parrucchino, per chi si oppone ad aborto e diritti gay il paladino è il senatore del Texas, per chi vuole un’America rassicurante il riferimento è l’ex First lady così come chi sogna l’utopia dell’uguaglianza totale vota il senatore del Vermont. Sono ricette drasticamente divergenti ed è proprio il contrasto acceso che esprimono a suggerire la determinazione con cui l’America sta scegliendo il suo 45o presidente.
La tradizione politica dell’Unione americana suggerisce che spesso dopo una presidenza durata due mandati la nazione ripensa la direzione di marcia e quanto sta avvenendo oggi avviene con toni, argomenti e tattiche più divergenti del passato. Difficile dire oggi quale coalizione si formerà a favore di chi così come l’orizzonte della «brokered Convention», a fine luglio a Cleveland in Ohio, minaccia l’implosione del partito repubblicano. Ma possono esserci pochi dubbi sul fatto che la battaglia per la Casa Bianca sta riavvicinando alla politica milioni di americani che se ne erano allontanati sin dalla fine degli Anni Ottanta. Dimostrando come la battaglia fra forze anti-sistema ed establishment promette di rigenerare la democrazia in America per il semplice fatto che i contendenti, pur divisi su tutto e da tutto, condividono la volontà di rendere la nazione più unita, prospera e forte. Perché la sfida è fra ricette opposte per rinnovare l’eccezione americana, non per liquidarla. Ecco perché questa campagna presidenziale promette di far entrare alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017 un presidente determinato a guidare l’America, e quindi la comunità delle democrazie, nell’affrontare le sfide mozzafiato del nostro secolo. È l’estrema vivacità della partecipazione politica alle elezioni a farci intuire che il motore della più vibrante democrazia rappresentativa del Pianeta è in pieno movimento.
vivicentro.it-opinione / lastampa / Come riparte la democrazia negli Usa MAURIZIO MOLINARI
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